2025, un anno nero per i popoli dell’America Latina

Anche per l’anno appena trascorso sulle pagine di Global Project ho cercato di raccontare il continente latinoamericano con uno sguardo certamente parziale ma critico e attento alle esperienze di lotta e resistenza dal basso.

Se l’anno precedente aveva messo in evidenza la tendenza all’intensificarsi delle aggressioni verso los de abajo, il 2025 ne ha confermato e anzi ha visto inasprirsi questa guerra non dichiarata verso le popolazioni che lottano e resistono a un sistema che produce morte e distruzione. Aggressioni territoriali e alle popolazioni che difendono il proprio territorio, persecuzioni contro leader sociali, ambientali e sindacali, gravi retrocessioni nei diritti conquistati con tanta fatica in tanti anni di lotte, è il quadro drammatico dell’attualità e dell’orizzonte.

Il tutto in un quadro geopolitico sempre più nero, sotto tutti i punti di vista, con il ritorno sempre più prepotente delle destre al governo. Destre radicali, destre che, sotto la spinta e l’appoggio del presidente statunitense Trump ma grazie anche agli errori madornali del progressismo, hanno riacquistato prima forza e ora il potere.

Fin dall’inizio dell’anno l’aggressione capitalista contro le popolazioni originarie è stata grave: un primo esempio di questa aggressione è lo sgombero del Lof Pailako, situato all’interno del Parque Nacional Los Alerces a 35 km da Esquel nella provincia del Chubut, nell’Argentina del fascista Milei, avvenuto proprio i primi giorni dell’anno dopo una lunga resistenza da parte della popolazione mapuche residente. La vicenda del Lof Pailako si inserisce nella strategia del governo di Milei di sradicare con la forza ogni tipo di opposizione sociale e lasciare campo libero all’estrattivismo più selvaggio.


Febbraio è già tempo di elezioni. Le prime dell’anno vedono sono in Ecuador dove dal confronto elettorale esce in testa il presidente uscente Daniel Noboa sulla candidata del correismo Luisa González. Tra i due candidati lo scarto è minimo, appena quarantamila voti, sarà quindi il ballottaggio a decidere il futuro presidente. Un po’ deludente il risultato del candidato indigeno della Conaie Leonidas Iza, che supera il 5% ma non ottiene il risultato sperato. Quei cinquecento mila voti portati in dote dal movimento indigeno al ballottaggio risulteranno importanti per la definizione del nuovo governo.


Marzo si apre con un annuncio epocale e simbolico: nel tentativo estremo di partecipare alle elezioni in Bolivia, Evo Morales annuncia di lasciare il Movimento Al Socialismo da lui stesso fondato e di aver trovato l'accordo per essere candidato dal Frente para la Victoria, un piccolo partito politico fondato nel 2009 e dalla storia molto ambigua.


Uno dei problemi centrali in cui tutti i più importanti analisti di movimento coincidono sono gli errori dei cosiddetti governi progressisti, troppo spesso più interessati a non infastidire troppo i grandi gruppi di potere piuttosto che a difendere le popolazioni in resistenza. Non è esente da questo problema nemmeno il governo dell’ex guerrigliero Petro in Colombia, che a marzo ha accusato le organizzazioni indigene di essere subordinate alle armi. Un’accusa fortemente contestata dalle organizzazioni sociali e indigene che da anni combattono non solo contro la violenza paramilitare ma anche contro quella statale che, è evidente, nemmeno sotto il suo governo, è venuta meno.


A marzo sale agli onori della cronaca anche la protesta dei pensionati argentina che da diversi mesi ogni mercoledì protestano per difendere le deboli pensioni argentine. In una di queste mobilitazioni settimanali, la polizia di Milei e Bullrich scatena tutta la sua forza brutale provocando oltre 100 arresti e 300 feriti, tra cui il fotografo indipendente Pablo Grillo che rimarrà per mesi in ospedale in pericolo di vita. Nonostante la brutalità della repressione la piazza resiste anche con l’appoggio di tante tifoserieevocando anche il grande Diego Armando Maradona secondo cui “chi non difende i pensionati è un cacasotto”.


A fine marzo si ritorna a parlare di Ecuador, in particolare della provincia di Esmeraldas dove si verifica un gravissimo disastro ambientale che ha contaminato oltre 80 km quadrati della suddetta provincia e colpito oltre 500 mila famiglie. E mentre il governo di Noboa minimizza dando la colpa alle condizioni meteorologiche, le popolazioni locali protestano per l’abbandono da parte delle autorità istituzionali.


Aprile si apre con la notizia della vittoria elettorale di Noboa che si conferma presidente vincendo il ballottaggio contro la candidata del progressismo Luisa González. La vittoria è netta e a stupire è l’aumento consistente dei voti per il neoeletto presidente a fronte di un sostanziale pareggio di González rispetto al primo turno, che fa pensare a un posizionamento a destra ma soprattutto anticorreista del movimento indigeno nonostante le indicazioni contrarie del suo leader Leonidas Iza che in campagna elettorale si era speso per un riavvicinamento con il correismo e contro l’avanzata del fascismo rappresentato da Noboa.


In un quadro generale sempre più scuro, uno spiraglio di luce e speranza viene dallo zapatismo, capace ancora una volta di convocare migliaia di persone all’incontro di aprile denominato «(Rebel y Revel) Arte: Incontro di arte, ribellione e resistenza verso il giorno dopo». 480 gruppi e 35 differenti discipline artistiche per un totale di oltre mille artisti iscritti, di cui 500 zapatisti danno la misura della capacità di mobilitazione che ancora ha il movimento indigeno zapatista.


A maggio un’altra storia che proviene dall’Ecuador. È quella del piccolo villaggio di Salango che da vent’anni resiste all’esproprio e al saccheggio che un imprenditore svizzero, con l’appoggio delle istituzioni, sta praticando. In questa intervista Carlos, compagno residente nella comunità, racconta gli sviluppi di questa lotta e le prospettive future dopo l’annuncio che il caso della comunità sarà esposto davanti alla Corte Interamericana della Commissione Interamericana dei Diritti Umani.


A maggio riesplode la lotta sociale a Panama in difesa delle pensioni, messo sotto attacco dal governo di destra di José Raúl Mulino. Il centro della protesta questa volta è nella provincia del Darién, al confine con la Colombia, dove la popolazione indigena emberá wounaan mette in atto un’eroica resistenza contro le forze armate panamensi.


Giugno è mese di resistenza anche in Ecuador, in particolare nel cantone di Las Naves, dove la popolazione indigena, installa un presidio permanente di oltre un mese per fermare il progetto estrattivista dell’impresa mineraria Curimining che nella zona vuole installare progetto minerario Curipamba - El Domo. Protetto dallo Stato e dai suoi agenti in divisa, il progetto minerario cerca di avanzare nei territori della comunità incontrando però la resistenza della popolazione locale.


A luglio una gravissima denuncia arriva dall’organizzazione salvadoregna Socorro Juridico Humanitario: da quando il regime di Nayib Bukele ha istituito lo stato d’eccezione nel marzo 2022, 430 persone private della libertà sono morte durante la detenzione nelle mani dello Stato. Una media inquietante di 10 persone al mese. E con un altro dato inquietante: il 94% delle vittime non aveva il profilo di pandillero o condanne penali precedenti.


A fine luglio arriva una notizia dal Cile che guarda al passato: Il VII Tribunale Civile di Santiago emette una sentenza che ripara almeno in parte gli abusi e le ruberie commessi dal dittatore Pinochet e dalla sua banda di criminali, condannando 16 persone tra gli eredi a restituire allo Stato oltre 16,2 milioni di dollari. Pinochet non fu soltanto un dittatore sanguinario… ma anche un ladrón!


L’estate porta una relativa calma, nonostante l’avvicinamento delle elezioni boliviane. In questa intervista Miguel Miranda, ricercatore del CEDIB, racconta come il Paese arriva a questo importante momento elettorale, con un crisi economica e sociale gravissima e con l’opzione progressista e indigena rappresentata dal MAS in caduta libera, presa dalla guerra interna tra le varie fazioni che la animano.


Le elezioni boliviane di domenica 17 agosto mostrano, come previsto, la fine del MAS, fuori addirittura dal Parlamento. Sarà ballottaggio, ma a sorpresa, a contendere la poltrona presidenziale all’ex golpista Tuto Quiroga è l’outsider Rodrigo Paz, sempre fuori dai primi due nei sondaggi che, grazie anche al vicepresidente Lara, ex poliziotto e tiktoker, riesce a guadagnarsi un posto al ballottaggio, rappresentando una nuova opzione populista nel panorama politico boliviano.


A margine delle elezioni politiche boliviane, una mia analisi del voto e sulle dichiarazioni dell’ex presidente Evo Morales che, furbescamente, si intesta il 20’% di voti nulli. Una manipolazione, quella di Evo, che ha l’obiettivo di essere considerato come l’unica opposizione e di scambiare quel 20% di voti come una sorta di lasciapassare giudiziario di fronte alle tante accuse mosse contro di lui.


A fine agosto Leonidas Iza denuncia il tentativo di assassinio da parte di uomini dello Stato, che lo hanno seguito nella sua comunità di residenza con l’obiettivo di ucciderlo. Una volta scoperti, i sicari sono stati sottoposti alla giustizia indigena, garantita dalla legge e riconsegnati dopo l’espulsione alle proprie famiglie.

A settembre riesplode il paro nacional in Ecuador, promosso dall’organizzazione indigena della Conaie. La miccia che ha riacceso la scintilla del sciopero generale è ancora una volta l’aumento del carburante attraverso l’eliminazione del sussidio statale, una storica conquista delle lotte sociali del passato e per questo fortemente sentita in tutto il Paese.


Ottobre si apre con l’inaspettata deposizione della dictadora Dina “asesina” Boluarte in Perù, scaricata dal Congresso fujimorista che la teneva sulla sedia presidenziale nonostante una bassissima percentuale di approvazione (del 4%). Al suo posto, in corrotto Congresso peruviano nomina il semi sconosciuto José Jerí, un’altra marionetta he garantisce continuità e impunità all’élite dirigenziale che ha in mano il Congresso. Il suo arrivo al potere coincide con le forti proteste popolari per la sua nomina, dal momento che oltre a segnare la continuità il nuovo presidente è pure indagato per alcuni atti di corruzione ed è stato denunciato per violenza sessuale, caso archiviato dal giudice per “mancanza di prove”.


A metà ottobre il paro nacional in Ecuador è a un punto di svolta, in particolare nella provincia di Imbabura, il centro della resistenza. Noboa decide quindi di inviare il “convoglio della morte”, sette mila uomini per mettere fine allo sciopero e liberare le strade bloccate. Il passaggio del convoglio ha portato con sé “umanitari” rastrellamenti nelle comunità andine, con pestaggi, irruzioni nelle abitazioni e un saldo di decine di feriti e due arresti indiscriminati.


Giornate di protesta e di sciopero generale anche in Perù dopo l’insediamento di Jerí. Il nuovo presidente dimostra di essere il perfetto discepolo del Congresso e manda migliaia di poliziotti a reprimere una grande mobilitazione a Lima. In una repressione brutale come poche volte, a rimetterci la vita è il giovane musicista Trvko, colpito a morte dai proiettili sparati dagli uomini in divisa.


A ottobre da segnalare anche la mobilitazione colombiana della convergenza “aquí en la lucha”, composta da decine di organizzazioni sociali, popolari, popolazioni originarie per reclamare non solo politiche pubbliche o compimento di accordi, ma anche e soprattutto «un’etica popolare, una forma di capire la politica dal basso dove la dignità non si negozia».


A ottobre c’è pure il ballottaggio in Bolivia: contraddicendo tutti i sondaggi che lo davano perdente, Rodrigo Paz vince il ballottaggio col candidato di estrema destra Tuto Quiroga ed è il nuovo presidente della Bolivia. Chiusa in malo modo l’era masista, si apre ora ufficialmente la nuova epoca del “capitalismo per tutti”, come recita uno degli slogan del vincitore.


A novembre si ritorna alle urne in Ecuador per una serie di referendum proposti dal governo di Noboa. Nonostante un clima non certo favorevole e al mezzo insuccesso del paro nacional - ma anche grazie a quella grande esperienza di resistenza popolare - il No trionfa in tutti i quesiti consegnando al governo una schiacciante sconfitta e frenando l’avanzata ultra capitalista del governo.


L’anno si chiude con un altro importante appuntamento elettorale: il ballottaggio in Cile che vede sfidarsi il filo pinochetista Kast e la comunista Jeannette Jara per il fronte progressista. A spuntarla è proprio l’apertamente fascista Kast: è un brusco risveglio per il Cile intero che vede riemergere così i fantasmi del generale Pinochet ed è la sconfitta finale per la stagione di lotta apertasi con l’estallido social del 2019.


L’onda nera che sembra essersi impossessata dell’America Latina - ma non solo - sembra più forte che mai e all’orizzonte non sembra esserci via d’uscita. Tuttavia, sebbene, come hanno ricordato gli zapatisti nel semillero organizzato a Oventik gli ultimi giorni del 2025, «nessun governo progressista latinoamericano ha messa un freno alla propria borghesia”, sono molteplici le esperienze di lotta e resistenza popolari desde abajo che aprono squarci di luce tra le tenebre. Per il 2026 l’augurio è che possano scacciare almeno in parte quelle tenebre, ne va della sopravvivenza delle popolazioni stesse.


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