Idranti, gas lacrimogeni, granate, bombe stordenti sparati tra la folla ad altezza uomo e dentro le abitazioni noncuranti della presenza di donne, anziani, bambini. E ancora, caccia all’uomo nelle strade e negli ospedali e decine di feriti e di persone arrestate: è il gravissimo bilancio delle operazioni del “convoglio umanitario” inviato dall’esecutivo per sedare il “paro nacional” nella provincia di Imbabura.
Otavalo, nella provincia di Imbabura, è una città andina a maggioranza indigena che fin dallo scorso 22 settembre ha aderito al paro nacional lanciato dalla Conaie contro il governo di Noboa e le sue politiche neoliberiste. In questi venti giorni di mobilitazioni, la città è diventata il centro simbolico del paro, con manifestazioni, presidi e blocchi quotidiani, in particolare dell’importante carretera Panamaericana.
Per questo motivo, il governo ha inviato il “convoglio umanitario”, ribattezzato nelle strade e sui social il “convoglio della morte”. Il convoglio è composto da oltre sette mila uomini militari ed è stato inviato, secondo le ipocrite parole del governo, per riportare la pace nella regione in cui la resistenza sembra essere determinata e instancabile, ovvero di riaprire le strade “costi quel che costi”.
A smentire le intenzioni “umanitarie” del governo è intervenuta anche la Cruz Roja, che ha smentito il suo coinvolgimento nell’operazione ricordando al governo che in base al principio di neutralità un convoglio umanitario non può essere scortato, controllato o diretto dai militari.
La repressione si è scatenata con una brutalità inaccettabile nelle giornate di lunedì 13 e martedì 14 ottobre quando il convoglio è entrato prima nella provincia di Imbabura e il giorno seguente nella città di Otavalo. Il passaggio del convoglio ha portato con sé “umanitari” rastrellamenti nelle comunità andine, con pestaggi, irruzioni nelle abitazioni e un saldo di decine di feriti e due arresti indiscriminati.
A Otavalo, la repressione si è acuita ulteriormente. Nella mattinata di martedì il convoglio ha attaccato i presidi sparsi in città scatenando una repressione senza confini. Oltre ad aver usato idranti, gas lacrimogeni, granate e proiettili vari contro la popolazione, i militari hanno fatto irruzione nelle abitazioni in cerca dei manifestanti e perfino negli ospedali, per portarsi via i feriti e minacciando gli operatori sanitari di non soccorrere i feriti e di avvisare le autorità al loro eventuale arrivo.
Le gravissime violazioni dei diritti umani perpetrate in queste ore a Otavalo e in tutta la provincia di Imbabura sono state registrate e divulgate da diverse organizzazioni di difesa dei diritti umani. La INREDH (Fundación Regional de Asesoría en Derechos Humanos) ha denunciato che «la forza pubblica sta sparando direttamente ai corpi, incluso viso, testa e petto».
La Alianza de Organizaciones por los Derechos Humanos ha denunciato la grave repressione indiscriminata e sproporzionata contro la popolazione civile attraverso un comunicato: «solo ieri in Imbabura si registrano 22 persone ferite, tra cui una donna in grave stato per aver ricevuto un lacrimogeno in testa, e quattro persone arrestate, tutte vittime dell’uso illegittimo della forza militare contro la popolazione civile indigena [...]. Esigiamo – conclude il comunicato – la fine immediata della repressione, il rispetto irrinunciabile dei diritti umani ed esortiamo infine gli organismi nazionali e internazionali ad urgenti azioni di protezione».
Dura, infine, la presa di posizione della Conaie: «il governo di Noboa ha convertito le nostre comunità in zone di guerra utilizzando gas, pallottole e violenza indiscriminata contro un popolo che esercita il suo diritto costituzionale alla protesta [...]. Fino a questo momento ci sono almeno 50 feriti, vari in stato critico, e 31 persone arrestate in maniera arbitraria».
Il governo di Noboa ha optato per la repressione invece del dialogo, definendo terroristi i manifestanti, criminalizzando il dissenso e approfondendo lo scontro con la popolazione, in particolare quella indigena. Un’opzione che provocherà altro dolore, altra sofferenza tra la popolazione, già colpita duramente dalle scellerate politiche economiche e sociali di un governo sempre più distante dai problemi de los de abajo. Perché, nonostante la repressione “umanitaria”, il ¡paro no para!