Cronaca di un ritorno annunciato

Prima o poi doveva succedere. Sono passati più di due lustri dall’ultima volta in cui ho messo piedi in uno stadio, il “mio” stadio, quel Pierluigi Penzo criticato da tutti per la sua scomodità ma che per me è sempre stato lo Stadio più affascinante del mondo. Parafrasando un grande del cinema, in questi oltre dieci anni in cui “sono andato a letto presto”, di cambiamenti ce ne sono stati parecchi e purtroppo non riesco a scorgerne molti di positivi.

Di acqua sotto i ponti lagunari ne è passata davvero parecchia: l’ultima volta non è stata nemmeno in Curva ma nei distinti. Per quell’altra ultima volta dovrei tornare ancora più indietro nel tempo, a quasi vent’anni fa, ma quella è un’altra storia, di quando una faida tra ultras aveva fatto prevalere gruppi di estrema destra relegando la parte sana del tifo organizzato arancioneroverde nei distinti. L’occasione per il ritorno in stadio è stata la promessa a mio figlio di portarlo a vedere una partita dal vivo, nonostante lui rugbysta, non sia particolarmente appassionato di calcio. E visto che partita doveva essere, ora che l’esilio è finito, era d’obbligo portarlo in Curva, tra il cuore pulsante della tifoseria.

Il mio abbandono dello stadio non fu dovuto alle faide ultras o a un disinteresse per le sorti della squadra tantomeno nel disinteresse per gli importanti aspetti aggregativi della tifoseria ma piuttosto a una perdita di fiducia nel sistema calcio sempre più trasformato in uno show con i tifosi non più parte attiva dello spettacolo ma semplici clienti. Oltre alla rivoluzione portata dalla nascita dei miei due figli, beninteso. Altra riflessione che mi ha portato ad allontanarmi dallo stadio è stata quella di constatare come negli anni il calcio sia diventato uno sport sempre più finto, dove vince il più furbo, il più raccomandato, il più antisportivo, il più potente. Dove è sempre più difficile riconoscere onestà e correttezza.

È proprio questo aspetto di show business, che ho sempre detestato e combattuto, la prima cosa che mi ha colpito venerdì sera in occasione dell’importante partita di campionato tra l’Unione e la Cremonese, scontro al vertice tra due candidate alla promozione in serie A. Già sul ponte a pochi passi dall’entrata vera e propria della Curva, una prima fila di steward (ma dove siamo, in aereo?) a controllare non solo i biglietti nominali, ma anche i documenti. Di seguito i finanzieri con gli amici a quattro zampe, gli odiosi tornelli e infine, varcato il cancello di entrata, un imponente checkpoint automatizzato di metallo che manco in Cisgiordania ad aprirsi alla lettura del biglietto.

Tutto questo lì dove una volta era già “territorio” ultras, ora conquistato dallo show, che naturalmente deve essere spettacolare, ma obbediente e ligio alle regole. Tuttavia, la cosa che più mi ha colpito salendo le scale per prendere posto in gradinata è stata l’assenza della della rete di separazione tra tifoseria e campo, con la conseguenza che le “pezze” dei vari gruppi ultras sono appese su tutta la balaustra. A controllare che nessuno invada il campo (ma chi lo farebbe con il rischio di due anni di diffida con firme?) un’altra fila di steward in giallo.

La partita è di quelle che valgono una stagione e pian piano la curva si riempie, è record stagionale di presenze, oltre diecimila persone. Escono i giocatori a riscaldarsi e partono i cori: “noi vogliamo questa vittoria” glielo urliamo forte e chiaro. Poi però arriva qualcosa di inaspettato. Lo speaker dello stadio comincia a buttare su musica a palla, come in un qualsiasi grande concerto. I cori prepartita faticano a competere con l’impianto audio dello stadio.

Il riscaldamento è finito, la curva è ormai gremita e si aspetta trepidanti solo l’ingresso delle squadre in campo. Escono, altro show. Il tecnico luci da sfogo alla sua creatività dando l’impressione di essere proprio sotto a un temporale, con le luci che vanno e vengono e tuoni di sottofondo. All’annuncio della squadra avversaria partono i fischi e, ovvio, gli insulti. Poi tocca ai nostri. E storgo il naso. Lo speaker annuncia i giocatori, i pannelli a bordo campo si illuminano coi loro nomi. Mancano solo i fuochi d’artificio e i giocatori che atterranno dal cielo, o qualcosa del genere. È una bolgia e non si sente niente, non per il tifo ma per il volume altissimo dell’impianto audio dello stadio.

Si parte, l’impianto audio si mette finalmente a tacere e si comincia a tifare. La situazione in curva è più o meno come è quasi sempre stata. Finito l’esilio nei distinti, ora la curva è nuovamente divisa a metà: guardandola dal campo, a destra i destri (davvero facce poco raccomandabili) a sinistra i sinistri, per farla molto ma molto semplice. Nonostante questa palese divisione sembra esserci armonia tra le varie anime della curva. I lanciacori si guardano e lanciano insieme i cori cercando di scaldare l’ambiente piuttosto freddino all’inizio, evidentemente in tensione per via della posta in palio.

Dopo pochi minuti dall’inizio della partita, nella parte “buona” della curva nel settore occupato dalla Banda Spericolata, viene esposto uno striscione contro il ticket d’ingresso, l’iniqua e medievale misura economica che la Giunta Brugnaro ha preso per “gestire” il turismo di massa che ha reso invivibile Venezia ma che in realtà è solo una monetizzazione delle presenze. Lo striscione che recita “la fede ultrà unico pass per la città” mi rende orgoglioso di questi ragazzi che si espongono e mi fa tornare alla mente quella volta, dev’essere stato il 2002, quando, in occasione della partita con la Ternana, invademmo il campo con lo striscione “no alla guerra” facendo ritardare l’inizio della partita per 15 minuti per protestare contro la guerra in Iraq. Altri tempi, altre lotte, altre modalità, ma la tradizione di una tifoseria attiva socialmente fortunatamente si è tramandata nonostante tutti i deliri societari e di tifoseria attraversati in questi anni.

Metà primo tempo segna la Cremonese e taglia le gambe alla squadra e anche un po’ alla curva, che sembra più intenta a seguire i singoli episodi sportivi dei suoi beniamini che a tifare. I lanciacori non mollano nonostante la squadra sia imballata e non produca emozioni degne di nota. Alla pausa riparte la “musica a baeton” dall’impianto audio, sempre di più sembra di essere dentro a qualcosa di diverso di una partita di calcio, almeno per come me la ricordavo.

Si riparte, ed è subito goal, e che gran goal. Lo stadio esplode ma poi ritorna protagonista lo speaker che chiama tre volte per nome l’autore del goal e la curva risponde urlando il cognome. Lo speaker sembra quasi il “capo della curva”, invasivo oltre il dovuto, detta i tempi dello spettacolo, dirige l’orchestra. E l’esaltazione dei singoli a mio avviso distoglie il pubblico dal tifare. Da boomer, ai miei tempi in curva non si tifava né si facevano cori per i giocatori ma solo per la squadra. Oggi, in un calcio dove non solo i giocatori sono meteore che restano nelle società anche solo qualche mese, ma anche le stesse società a volte lo diventano travolte da debiti e scandali vari, si trasformano i giocatori in eroi o bandiere anche solo per una giocata.

Per fortuna non tutto è controllabile. Il pareggio esalta la squadra che esalta la curva. Ora si canta fisso, l’entusiasmo è travolgente per oltre 20 minuti. Senza allenamento è dura stare dietro a tutti i continui cori, ma ci si prova. Poi arriva il goal della vittoria. È l’apoteosi, lo speaker prova a riprendere il sopravvento riproponendo la tiritera del primo goal ma questa volta dopo aver festeggiato il giocatore, riconosco quella curva gagliarda, entusiasta e spontanea che esplode di gioia, con mille cori che partono qua e là finché i lanciacori riportano l’ordine facendo cantare tutta la curva.

Gli ultimi minuti sono la solita passione e sofferenza. Ci si prepara al “Pope” mentre la Cremonese ci fa prendere un coccolone. La sciarpata e il canto tradizionale veneziano mettono la ciliegina sulla torta a una serata indimenticabile per chi ama i colori arancioneroverdi. Finisce la partita, tutta la squadra sotto la curva a cantare e a saltare coi fioi per oltre dieci minuti e anche qui, sorpresa, nessuno si muove per abbracciare i giocatori. Lo spettacolo odierno impone delle regole, ma soprattutto delle sanzioni, che la mia generazione ha provato a combattere ma che non è riuscita a sradicare e oggi chi vive lo stadio ne paga le conseguenze.

Di immutabili restano davvero poche cose. Resta il fascino senza tempo del catino veneziano, uno stadio, il Pierluigi Penzo, che rimarrà ineguagliabile per la sua poesia, per la sua fatiscenza (nonostante i tentativi di renderlo attraente) e per la sua location. E nemmeno i migliaia di metri cubi di cemento del Bosco dello Sport che porteranno la comodità al tifoso veneziano snob potranno mai cambiare questo. Ci mancherà, il Penzo, come ci mancherà. Resta la magia di tifare in compagnia la squadra della propria città, di spingere insieme le ali o i terzini sulla fascia, di dare forza al mediano incontrista e idee al centrocampista metodista, di far schizzare come un gatto il portiere e di mettere tutta la potenza nel piede del Doge venuto dal freddo. Resta soprattutto, pur con le inevitabili trasformazioni date dal correre del tempo, la bellezza di riconoscersi parte di una comunità, la capacità che ha il calcio di aggregare dietro a un’ideale o a dei colori e che nessun tentativo di trasformare il tifoso in cliente riuscirà, spero, mai a cancellare.

Ci ritornerò? Ovvio, al cuor non si comanda. Alè, forza l’Unione alè…

Nuova Vecchia