Il passaggio di Fabio è teso, la palla sembra un missile che ruota a tutta velocità verso di me e io sono già in avanzamento, ma devo comunque provarci, l’occasione è di quelle imperdibili. Così allungo il braccio all’indietro e afferro l’ovale con la punta delle dita. Miracolosamente la palla mi rimane incollata alla mano, la stringo forte avvicinandomela al petto.
Con la palla ben salda in mano accelero più che posso. Alla mia destra nessun sostegno, solo qualche metro mi separa dalla linea bianca laterale, e a sinistra una decina di giocatori mi corrono incontro, di cui almeno sei o sette con intenzioni tutt’altro che amichevoli. Davanti a me gli avversari sono schierati e di fronte ho Alessio, che a rugby ci gioca per davvero, e un altro ragazzo che non conosco, ma anch’egli tesserato e quindi di sicuro più veloce del brizzolato signore di mezz’età che ha la palla in mano.
La linea di meta è lì vicino, sarà all’incirca dieci metri, probabilmente meno, che se sei un agonista è ben poca cosa ma se sei un genitore che non fa alcun tipo di sport da oltre vent’anni, può sembrare la distanza percorsa da Filippide più di duemila e cinquecento anni fa per portare ad Atene la notizia della vittoria contro i Persiani.
La linea di meta mi sembra come l’orizzonte di Eduardo Galeano, che più corri e più si allontana. Di fare finte non se ne parla, menischi e crociati salterebbero come i famosi frijoles saltarines messicani. Da una rapida occhiata intorno a me mi rendo conto che l’unica mia possibilità è la bandierina. L’ho imparato guardando le partite di quelli bravi in TV: quando un giocatore palla in mano ha il fiato dell’avversario sul collo, lì deve puntare, a quella bandierina che divide il temerario attaccante dalla gloria.
Così la punto, la bandierina, la bramo, vorrei che fosse più vicina e mi venisse incontro. Invece rimane lì, impassibile, come un giudice di gara in attesa di proclamare il vincitore. Corro veloce, tanto veloce, più di quel che mai avrei pensato di riuscire a fare con quelle scarpette da ginnastica dalla suola usurata. Mentre corro la guardo, un occhio a lei per non perderla di vista, un occhio ad Alessio che si avvicina minacciosamente. Mancheranno due metri, sento le mani di Alessio su di me, un suo tocco significherebbe dire addio ai sogni di gloria.
Non può finire così, mi dico, già nel primo tempo mi avevano fermato a pochi metri da quella dannata linea e il tocco a due mani dell’avversario che aveva fermato la mia corsa mi aveva fatto scrocchiare il collo. Il “tocco”, se così vogliamo chiamarlo, aveva provocato un angosciante rumore di ossa rotte che lo avevano sentito anche dal lato opposto del campo. Pensa se avessimo giocato a rugby, quello vero intendo.
Non può finire cosi, mi dico, e mi rendo conto che quei due metri che mi separano dalla gloria li dovrò fare in tuffo, per provare ad atterrare a fianco della bandierina e giusto poco oltre la fatidica linea bianca. Mica semplice, ma necessario, come ho visto fare tante volte a quei furetti, e furbetti, che per ottanta minuti macinano chilometri sulle ali e giocano a guardie e ladri con gli energumeni che stazionano in mezzo al campo.
Il tuffo è esteticamente inguardabile ma mi permette di evitare l’ultimo disperato tentativo dell’avversario di fermarmi. Atterro lì, a pochi centimetri dalla bandierina, l’ovale schiacciato giusto sopra la linea bianca. Mentre rotolo fuori dal campo sento il fischio di Andrea e scorgo di sfuggita la sua mano alzata. Ce l’ho fatta, incredibilmente è meta, è la mia gloria. Mi alzo sorridente e correndo verso il centro del campo arrivano i complimenti di Fabio, i “cinque” dei compagni e gli applausi di pubblico e avversari.
Nemmeno avessi fatto vincere all’ultimo minuto alla Nazionale una partita del Sei Nazioni. E invece era solo una banale sfida a touch tra genitori, qualcosa di paragonabile alla sfida tra scapoli e ammogliati di fantozziana memoria. Vale niente, ma che meta, ragazzi!
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