Una capanna di assi di legno e tetto di lamiera che arde, mentre intorno gli abitanti cercano di ripararsi dalla pioggia di lacrimogeni lanciati dalla polizia di frontiera e guardano con sgomento e preoccupazione l’incendio che rischia di propagarsi per l’intero villaggio di Arimae, nella provincia del Darién, dove risiede la popolazione indigena emberá wounaan.
È l’istantanea simbolo di questi ultimi giorni di protesta sociale che è riesplosa in tutta Panama oltre un mese fa. A fare da detonatore della rivolta è stata l’approvazione da parte del governo della famigerata legge 462 che regola le pensioni: in pratica una privatizzazione delle stesse che produce una regressione per la classe lavoratrice, con la retribuzione del pensionamento che passa dal 60% al 30% dello stipendio.
Non bastasse una misura tanto iniqua, il governo di destra guidato dal Presidente José Raúl Mulino si è sottomesso ossequioso all’arroganza del nuovo padrone di Washington promuovendo un memorandum con il Segretario di Stato statunitense Rubio, in cui consente al vicino del nord di poter riaprire le tre basi americane nei pressi del Canale, con l’obiettivo di riportare sotto il controllo diretto statunitense il Canale stesso. Accordo che rappresenta una violazione della sovranità di Panama e riporta alla mente i terribili anni dell’interventismo statunitense nel Paese.
Di non meno importanza, infine, la decisione del governo di riaprire la più grande miniera di rame a cielo aperto a Donoso, scavalcando la sentenza della Corte Suprema di Giustizia che nel dicembre 2023, e dopo oltre un mese di lotta e resistenza coraggiosa, l’aveva chiusa, vietando in tutto il Paese l’attività estrattiva. Una sentenza storica che - citando il movimento Panamá Vale Más Sin Minería - aveva fatto «prevalere il diritto alla vita, alla salute, all’ambiente delle future generazioni prima di qualsiasi altro diritto di natura economica».
Ad Arimae, la popolazione locale da oltre 20 giorni ha bloccato la carretera Panamericana, che proprio in questa regione riprende il suo percorso interrotto nella Selva del Darién al confine con la Colombia. La risposta della Senafront, la temuta polizia di frontiera panamense, è stata brutale: centinaia di agenti sono arrivati al villaggio con decine di automezzi e hanno attaccato i manifestanti con una fitta pioggia di lacrimogeni e proiettili di gomma che hanno provocato diversi feriti tra la popolazione in resistenza. Terminato l’attacco per le strade di Arimae è rimasta una montagna di bossoli di lacrimogeni che gli abitanti hanno raccolto e mostrato agli osservatori dell’ONU, giunti nel piccolo villaggio indigeno per avviare un’indagine per presunte violazione dei diritti umani.
Arimae, purtroppo, non è l’unico villaggio indigeno ad aver subito la brutale violenza della forze armate mandate dal Presidente Mulino. Da oltre quaranta giorni, infatti, a mobilitarsi nelle strade del Paese, oltre alle popolazioni indigene, ci sono anche i lavoratori edili, i docenti, gli studenti, i movimenti ecologisti, la cittadinanza contraria alle misure promosse dal Governo, tutti riuniti sotto la sigla Alianza Pueblo Unido por la Vida.
E la repressione si è abbattuta come una scure su tutte le forme di protesta, dalle più radicali a quelle più pacifiche, senza distinzione. Tra coloro che sono stati colpiti in modo particolare dalla repressione statale c’è il Suntracs, il combattivo sindacato dei lavoratori edili, tra i principali protagonisti della ribellione del 2023 e di quella attuale. Due dirigenti dell’organizzazione, Jaime Caballero e Genaro López, sono stati arrestati con la gravissima accusa di terrorismo per aver organizzato la protesta popolare mentre il portavoce del sindacato, Saúl Mendez, nei giorni scorsi si è rifugiato nell’Ambasciata boliviana della capitale per timore di essere arrestato.
Scrive Kevin Sánchez Saavedra su Radio Temblor: «Jaime Caballero e Genaro López sono stati ammanettati come se costruire dignità fosse un crimine. Gli insegnanti di ASOPROF sono stati messi all'angolo con il gas, come se educare in coscienza ed esempio fosse una minaccia. I popoli originari - tra loro, il popolo Embera di Arimae - sono stati assediati, come se alzare la voce contro la Legge 462 fosse una congiura pericolosa; come se proteggere lo spirito della lotta popolare del 2023 che ha frenato la miniera di Donoso fosse un affronto; come se opporsi al memorandum d'intesa redatto senza anima nazionale o resistere al fatto che il fiume Indio diventi una preda e non corrente viva, fosse un errore imperdonabile».
La repressione non ha fermato le proteste né intimorito la popolazione in lotta. E mentre il Presidente Mulino getta benzina sul fuoco, arrestando i sindacalisti, etichettandoli come «mafiosi», insultando i manifestanti anti-miniere come «cinque gatti che non pagano le tasse» e annunciando che non abrogherà la legge 462, la popolazione continua a resistere, ad organizzarsi, a lottare. Consapevoli che, come già avvenuto un anno e mezzo fa con la battaglia per liberare il Paese dalle estrazioni minerarie, solo con lo sciopero generale permanente si potranno fermare i nefasti progetti neoliberisti e colonialisti del governo di turno.