A Gabo

Il 17 aprile di cinque anni fa moriva Gabriel Garcia Marquez. Apro il cassetto dei ricordi e ritorno a quando ero ragazzino e divoravo i suoi libri sognando quei mondi lontani e quelle avventure straordinarie.

Tra una pagina e l'altra sognavo la Selva impenetrabile che circondava Macondo, la stazione del treno o le prodigiose meraviglie portate da Melquíades il gitano. Sognavo mondi incantati e viaggi emozionanti.

Qualche tempo dopo, cinque anni e qualche mese fa, mi sono ritrovato a camminare per le polverose strade di Aracataca, circondato dall'indifferenza di una cittadina per niente intrappolata nel mito creato dal suo più illustre cittadino.

Ma entrando nella Casa di Ursula e attraversando il piccolo stanzino dove il Colonnello Aureliano Buendía fabbricava pesciolini d'oro, e il patio fino al grande albero in mezzo al cortile, dove José Arcadio Buendía legato delirava in latino, le pagine di quel libro magico mi sono scorse velocemente davanti agli occhi facendomi ritornare per un istante alla prima volta che aprii quel libro e ne rimasi perdutamente e irrimediabilmente travolto.

Lì, in quella che fu la casa dello scrittore e di Ursula Iguáran, ho capito finalmente cos'è stato per me leggere i racconti senza tempo di Gabriel Garcia Márquez: in fondo siamo noi che rendiamo magico il nostro presente, con i nostri sogni, le nostre passioni, con la nostra voglia di cambiare il mondo e con il nostro impegno. Poi, possiamo decidere di sognare da soli, avvolti in mondi magici e in avventure fantastiche per finire irrimediabilmente condannati alla solitudine.

Oppure possiamo sognare insieme, approfittare dell'unica opportunità che abbiamo sulla Terra, far diventare realtà anche le "magie" più improbabili e sconfiggere così la solitudine.

Gracias Gabo, por siempre.
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