Tra pochi giorni Mestre avrà “finalmente” il suo bistrot anti degrado, fortemente voluto dall’amministrazione fucsia per riqualificare la zona di via Piave, da tempo al centro delle cronache cittadine perché frequentata da quelli che la società civile, pulita e ben educata definisce con disprezzo tossici, spacciatori, puttane e barboni, o più semplicemente “sbandati”.
Ma cosa ci dice in realtà tutta questa operazione anti degrado sponsorizzata dal sindaco-imprenditore? A me personalmente non dice nulla di buono, e non credo sia risolutiva di un problema così vasto da pensare di risolverlo… con un bistrot. No, non sto parlando degli “sbandati”, sto parlando di quell’allucinazione collettiva che è la battaglia contro il degrado nelle città.
Il degrado è appunto un’allucinazione collettiva perché fa leva sulle emozioni, in particolare sul desiderio di pace sociale tanto cara alle istituzioni ma in realtà provocata proprio dalla conversione dei diritti di tutti in privilegi di pochi. Senza i diseredati, i poveri, gli ultimi o come vogliamo chiamarli, noi comuni mortali o semi poveri non potremmo riprodurre quel meccanismo di superiorità che ci insegnano i los de arriba e questa giunta-impresa, che serve a dividerci tra "noi" meritevoli e "loro" indegni, o a imparare a disprezzare la povertà, come fosse una scelta e non una condizione imposta dal sistema. Oppure, non potremmo nemmeno pulirci le nostre anime belle donando qualche monetina qua e là come fa ogni buon cristiano che si rispetti. Tutto fumo negli occhi insomma, che serve solo a distogliere l'attenzione. Il degrado infatti è provocato essenzialmente da due fattori.
Il primo, l'ho accennato sopra, è la stretta sui servizi ai cittadini, in particolare quelli definiti a bassa soglia, ovvero agli “sbandati”. Non è un caso che, dopo quattro anni dal suo insediamento questa giunta che ha fatto della battaglia anti degrado la sua fortuna elettorale, non abbia risolto il problema ma anzi che la situazione sia peggiorata: tagliare i servizi alle persone senza dimora o ai “tossici” e contemporaneamente cercare di criminalizzare e spostare il problema (vi ricordate la cittadella della povertà?), è solo una risposta temporanea, utile a placare gli animi dei “cittadini esasperati”. La retata anti spaccio dell’estate scorsa ne è un’esempio. Le “persone/problema” si spostano e a distanza di qualche mese, ritornano. Soprattutto, i problemi non sono mai scomparsi ma solo resi invisibili alla vista per qualche tempo.
Il secondo fattore, è l’abbandono degli spazi. E la zona di via Piace dove sorgerà il bistrot è uno dei tanti esempi. Un tempo in quell’area esisteva una galleria d’arte, il Contemporaneo, uno spazio vivo che non solo garantiva la frequentazione della zona ma che offriva alla città una proposta culturale di prim’ordine. Dopo qualche anno di attività, la galleria ha chiuso e lo spazio è stato venduto a una società immobiliare che da quel momento lo ha tenuto chiuso. Qualche tempo dopo alcuni giovani studenti della città hanno provato a far rivivere lo spazio e la zona occupando l’edificio e formando il Collettivo LOCo (Laboratorio Occupato Contemporaneo). La mediazione dei ragazzi con i frequentatori del parchetto antistante ha senz’altro migliorato la vivibilità dell’area e ha rilanciato anche la proposta culturale, naturalmente privilegiando un target giovane, con iniziative costruite dal basso, in autonomia e aperte alla città.
Ma si sa, le esperienze di auto organizzazione e di liberazione degli spazi dal basso spaventano molto le istituzioni perché mettono in mostra la loro incapacità di rispondere alle necessità e alle richieste della cittadinanza. Così, qualche mese fa, il collettivo LOCo è stato sgomberato per far posto al progetto del bistrot: una nuova costruzione al posto del piccolo parco con le panchine dove gli “sbandati” disturbavano la vista e l’udito. Non solo, negli spazi dell’ex galleria d’arte aprirà un altro ristorante per completare l’opera di riqualificazione urbana.
Il disegno è chiaro per chi usa gli occhi per guardare: per questa giunta, speriamo al suo ultimo anno di attività, la riqualificazione urbana passa attraverso la costruzione di quel mostro, dove i cittadini sono trasformati in clienti, dove ogni cosa ha un valore economico, può essere venduta, comprata, trasformata purché rientri nelle logiche del capitalismo estrattivo: sfruttamento delle risorse, dei territori, delle persone. La vendita di spazi pubblici a privati non può essere considerato un intervento di riqualificazione destinato alla città e ai cittadini ma un favore per gli affari di privati.
Quanto a noi cittadini, da questa esperienza col sindaco-imprenditore dovremmo imparare che le sorti di una città non sono da delegare a nessuno ma che è compito di ognuno partecipare alla vita pubblica della propria città e prendersene cura, ogni giorno e non ogni quattro o cinque anni andando a votare. Come stanno facendo in questi mesi numerosi comitati, associazioni, collettivi, riuniti nella sigla Quartieri in Movimento, con le Passeggiate di Quartiere, un percorso dal basso per discutere e affrontare insieme le problematiche che ogni quartiere vive nella quotidianità, alla ricerca di percorsi virtuosi che costruiscano una città fatta di cittadini e per i cittadini e non di clienti.
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