Dos palabras más


Sulla panchina della piccola tienda dove stiamo aspettando da ore un passaggio che sembra non arrivare mai, Caio, Cita e Zoe mi sorridono mentre li immortalo in quel momento storico. Fa caldo sotto al tetto in lamiera nonostante tra poco il sole tramonterà dietro alle dolci colline che circondano il piccolo e magico villaggio di Guadalupe Tepeyac. La nostra meta è il cuore della rebeldía zapatista, La Realidad, ma non è detto che ci arriveremo, almeno per oggi.

I sorrisi stanchi e la fiducia di poter arrivare brevemente a destinazione dei miei compagni di viaggio mi tirano su di morale, ma in cuor mio temo che quel passaggio che dovrebbe arrivare ahorita non arriverà mai. Ahorita in Messico vuol dire tutto e niente e chi ne conosce il suo utilizzo sa che se gli viene rivolta quella parola è rimasto fregato nel limbo dell’incertezza. Non è poi così inusuale infatti che in mezzo alla Selva “saltino” le corse programmate: vuoi per problemi con le forze armate, vuoi per problemi tecnici dei mezzi di trasporto o semplicemente perché tanto qui è vaga la linea di demarcazione tra l’oggi e il domani. Così i miei dubbi crescono minuto dopo minuto.

Ed è anche naturale, se penso a com’è andata la giornata. Se avessi ascoltato il saggio Caio, dos palabras más con i tanti autisti incontrati lungo la strada, forse a quest’ora saremmo già arrivati a destinazione. La nostra sveglia era suonata poco prima delle cinque del mattino, fuori dalla finestra solo la luna e qualche lampione a rischiarare le strette viuzze di San Cristóbal. Ci prepariamo in fretta, carichiamo gli zaini in spalla e partiamo. Anzi no, la signora Isabel, della Posada omonima, si è dimenticata di lasciarci aperta la porta, così dobbiamo andare a chiamarla. I minuti contati, diventano minuti di ritardo nella tabella di marcia, e questo è il primo grave errore, pensare di gestire il tempo alla maniera occidentale in Messico. Finalmente usciamo, attraversiamo quasi di corsa calle Francisco Léon, fino all’intersezione con Avenida Insurgentes, e poi giù, fino al terminal dei collettivi per Comitán, dove arriviamo alle sette e mezza del mattino.

Dai miei ricordi però, il furgone zapatista che parte da Las Margaritas in direzione La Realidad, se ne è già andato; quindi, in forte ritardo, cerco una via alternativa per recuperare tempo, anche perché, no ho idea se da Las Margaritas partano altri furgoni più tardi. Non mi metto a specificare dove dobbiamo andare, faccio il vago e penso che è meglio dos palabras menos che rischiare di dire cose sbagliate nel posto sbagliato. Così cerchiamo e troviamo il terminal dei collettivi per i Lagos de Montebello. Due parole veloci e contrattiamo con il conducente la fermata a mezz’ora da La Realidad.

Sono quasi le dieci del mattino quando arriviamo a un bivio in mezzo alla Selva, tra palme e mais infuocate dal sole. L’autista ci dice che dobbiamo scendere, che mezz’ora in quella direzione siamo a destinazione. Ma siamo in mezzo al niente, e qualche dubbio ci viene. Anche stavolta preferisco non approfondire con l’autista, nonostante senta di sottofondo Caio ripetermi sottovoce dos palabras más, dos palabras más… Decidiamo di cominciare a camminare domandando nella direzione indicata e qualche centinaia di metri più avanti incrociamo un ragazzo, a cui chiediamo informazioni. In mezzo al niente della Selva mi sento un po’ più tranquillo e al ragazzo in questione faccio presente dove dobbiamo andare e se ci sono mezzi dell’organizzazione che passano per di là. Lui ci guarda un po’ sorridendo e un po’ con la faccia stranita di chi si sta domandando che diavolo ci fanno quattro yanqui in quell’angolo remoto di selva, e ci informa che il carro per La Realidad passerà alle quattro del pomeriggio, ma che da lì, il piccolo villaggio zapatista dista tre ore.

Un poco abbattuti dalla notizia decidiamo di proseguire il cammino. Passiamo davanti a una capanna dove una signora sta lavando i vestiti, salutiamo rispettosamente e chiediamo lumi pure a lei. Come dice? La Realidad è a cinque ore? Proseguiamo, magari, ci siamo spiegati male, magari si è sbagliata, magari non ha capito cosa chiedevamo. Un’altra casa poco più avanti. Il piccolo hombre indigeno che incontriamo è più che sicuro che La Realidad sia a sette ore di cammino.

La faccenda si complica, cominciamo a scoraggiarci, ma continuiamo a camminare sotto un sole sempre più cocente, con un’umidità impossibile da sopportare e con gli zaini che a ogni passo diventano sempre più pesanti. A un tratto Cita sente il fruscio di un ruscello a lato del sentiero. Spossato dal calore e dalla fatica propone al gruppo di fermarsi per un bagnetto rigenerante, ma il saggio Caio, accelera l’andatura bofonchiando «dos palabras más, non si poteva chiedere meglio, no?».

Secondo le indicazioni raccolte lungo la strada il primo villaggio che dovremmo incontrare è quello di La Sombra, dove a questo punto puntiamo a fermarci e a riposarci, ormai convinti dell’impossibilità di raggiungere la nostra meta. Ma anche questo villaggio non arriva. Sparito nel nulla. Non solo, ma non incontriamo più anima viva per oltre un’ora. E i dubbi diventano incubi. Poi d’un tratto due ragazzi in motorino, e subito dopo un carro. Buttiamo gli zaini per terra e ci mettiamo in mezzo alla strada per fermarlo.

Fortunatamente l’uomo alla guida sta andando a Guadalupe Tepeyac, così abbiamo pure l’ardire di contrattare il prezzo del passaggio ma, ad essere onesti avrebbe potuto chiederci qualunque cosa e saremmo comunque saliti. Passiamo l'ora successiva attaccati all’asse centrale del cassone del carro, sballottati dalla strada piena di buche e da ammortizzatori più stanchi di noi. Ma non importa, il pensiero di arrivare a Guadalupe, di essere in salvo, ci ristora l’animo. Pure Caio ora sembra più sereno ed è già da un po’ che non ripete il suo mantra, dos palabras más.

Smontiamo all’incrocio centrale del piccolo villaggio circondato da bellissime colline, a destra l’ospedale statale, a sinistra la tienda dei compas zapatisti. Ci rifocilliamo con la bibita gassata della peggior specie e patatine fritte così colorate da sembrare finte. Chiediamo al ragazzo all’interno quando passa il carro per La Realidad e, incredibile, un colpo di fortuna: fra mezz’ora. Ma oggi non è un giorno fortunato, il carro è pieno di uomini, donne, bambini, animali e mercanzia di ogni genere e noi non ci stiamo. Sembrava troppo bello per essere vero.

«No se preocupen amigos, hay otro carro que está llegando, a las dos, tres de la tarde», ci dicono. Ma poi, proprio prima di ripartire dice ciò che le nostre orecchie non avrebbero voluto sentire: ahorita. Nonostante l’incertezza del prossimo arrivo, aspettiamo, non ci resta altro da fare: un’ora di cammino in carro significano almeno cinque o sei ore a piedi, e non è proprio il caso dopo una giornata del genere. Me lo ricordo bene l’ultimo pezzo di strada, con quella salita che al solo pensiero di farla a piedi mi viene male.

Il tempo scorre lentamente come solo in quest’angolo di mondo succede, per fortuna la tienda ha pure la televisione così ci perdiamo via guardando El Tri giocare contro la Spagna. Caio si annoia così tra un tiro e l’altro sfodera nuovamente il suo grido di battaglia dos palabras más, a ricordarmi che avremmo potuto già essere a riposarci sotto la ceiba dell'accampamento. Stranamente senza troppo ritardo, arriva il secondo carro, vuoto, possiamo finalmente concludere il nostro viaggio. Almeno questa volta la maledizione dell’ahorita non ha sortito effetto. Quando siamo a meno di mezz’ora dalla meta comincia a piovere, un acquazzone breve e intenso da cui ci ripariamo grazie al tendone del carro. Sono le cinque passate, il sole sta tramontando e dopo dodici ore di viaggio, una stanchezza infinita, il sole cocente, il caldo asfissiante, la pioggia torrenziale, l’incertezza, finalmente imbocchiamo le ultime curve in discesa che portano al villaggio zapatista.

Dopo esserci presentati alle autorità, veniamo accompagnati al vecchio accampamento degli internazionali e finalmente veniamo accolti sotto la grande ceiba dagli abbracci degli altri compagni di Ya basta!, partiti il giorno precedente, stupiti di vederci arrivare a quell’ora inusuale. Ci sediamo nel comedor e mentre fuori si scatenano gli elementi, Caio inizia a raccontare le disavventure della nostra giornata sottolineando come con dos palabras más saremmo certamente arrivati prima. Non potendo obiettare nulla del racconto, non mi rimane che sottolineare: ahorita llegamos!

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