La paura

La corsa era entrata nel vivo, mancava l'ultimo giro del circuito e questa volta lo “strappetto” che portava al borgo di Montaner mi aveva fatto perdere le ruote dei migliori. Lì davanti erano rimasti in pochi a contendersi la vittoria, ma non mi davo per vinto, li vedevo in lontananza, a poche centinaia di metri e ora c’era la breve discesa che portava all’arrivo per tentare di recuperare. Non ero bravo in discesa, non lo ero mai stato, ma quel giorno mi sentivo bene e se solo fossi riuscito a rientrare prima della fine della discesa forse il giro seguente le cose sarebbero potute cambiare. Così mi buttai giù in discesa senza fare troppi calcoli e senza pensare alle mie scarse doti di discesista.

Curva a destra, rettilineo, curva a sinistra, sorpasso il corridore del “Caneva” che non riesce a starmi a ruota. Sto recuperando, la coda del gruppo dei migliori si avvicina, li vedo in lontananza. Altra curva a destra passata indenne, ora tocca a quella a sinistra. Non me la ricordavo bene per via della fatica, ma decisi di rischiare lo stesso, giù in picchiata senza toccare i freni. La prendo larga, perfetta, e comincio a stringere leggermente. Ma la strada continua a girare, non è una curva, è un tornante. Sono troppo veloce, provo a stringere più che posso, freno, ma mi rendo conto subito che questo tornante sarà la fine del mio inseguimento.

Il guard-rail si avvicina rapidamente e inesorabilmente, riesco a non cadere e sbatto violentemente contro lo stesso. La bicicletta sta lì, incastrata, come fosse parcheggiata sul ciglio della strada, io volo al di là del guard-rail. Una capriola e poi giù. Almeno dieci metri di volo sul ripido pendio erboso, il vuoto sotto di me e nella mia mente. Come tocco terra mi aggrappo con le mani all’erba alta e finalmente mi fermo. Appena in tempo: mi guardo dietro, ancora qualche metro e il pendio si trasforma in dirupo. Il cuore batte a mille, una rapida occhiata al mio corpo, mi conferma che sono tutto intero, non sento dolori, non vedo sangue. 

L’adrenalina mi dà la scossa, comincio a scalare velocemente il pendio verso la strada. E penso al tempo perduto, mezzo minuto o poco più, ce la posso ancora fare. Arrivo sul ciglio della strada. La bici è ancora lì e sembra tutta intera. Da sotto il guard-rail mi accorgo di uno spettatore che avevo passato qualche momento prima corrermi incontro disperatamente: urla angosciato qualcosa che non capisco, gli occhi terrorizzati di chi crede di essere di fronte a una tragedia. Sento il gelo tutto attorno. Mi alzo in piedi e scavalco il guard-rail, gli faccio cenno con la mano che è tutto a posto, prendo la bici e rimonto in sella.

Prima di ripartire però i miei occhi incrociano nuovamente quelli dello spettatore: la paura se ne è andata dai suoi occhi, ha lasciato spazio al sollievo e all’incredulità: ora si è fermato e si passa la mano sulla fronte, sembra esausto e stupito dal “miracolo” a cui ha assistito. Solo allora mi sento sopraffatto da un tremito che mi impedisce di pedalare. Mi blocco, guardo il dirupo che scorre alla mia destra, capisco che per oggi va bene così. 


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