Cartoline dal Chiapas

Sono passati oltre 20 anni dalla prima volta che sono stato in Chiapas e sette dall’ultima. In questi anni, di ritorno dai miei viaggi ho sempre riportato indietro e “raccontato” cartoline di un luogo da sogno che mi ha lasciato un segno indelebile non solo per l’incredibile esperienza vissuta nelle comunità zapatiste, ma anche per la straordinarietà di un territorio ricchissimo di cultura, di umanità, di storia, e di bellezze naturali. Un territorio che più di una volta non ho esitato a definire la mia seconda casa.

Eppure di anno in anno le cartoline che ho riportato indietro si sono fatte sempre più oscure, tristi, per le gravi problematicità che il Chiapas ha visto crescere: la “guerra a bassa intensità” che ha messo in difficoltà le comunità zapatiste dopo il levantamiento, la costruzione di mega progetti che è andata di pari passo con la turistificazione dello Stato, la trasformazione di San Cristóbal da pueblo mágico a pueblo turistico, che le ha fatto perdere quell’aurea di autentica capitale della rebeldía e della speranza fino alle recenti e drammatiche notizie di questi giorni.

Era il 2003 quando arrivai per la prima volta in Chiapas e la “guerra a bassa intensità” obbligava ancora le compagne e i compagni solidali con l’esperienza zapatista a mimetizzarsi nei carri tra polli e sacchi di farina o fagioli per raggiungere le comunità ribelli nel profondo della Selva. O a non sviluppare i rullini fotografici a San Cristóbal per paura di essere denunciati alla polizia o peggio ancora di vedere distrutti i ricordi. Ma finiva lì, il rischio di essere sorpresi a fare solidarietà coi ribelli era al massimo di essere espulsi dal paese o di essere “sequestrati” dalla polizia o dalla migra (la polizia migratoria) per qualche centinaia di euro.

Nei viaggi successivi, nel 2005, 2007, 2010 e 2013 forse andò addirittura meglio. Non ricordo di particolari problemi per raggiungere le comunità, tanto meno per visitare luoghi isolati come Palenque: c’era comunque sempre l’allerta dei compas residenti per chi si dirigeva in quelle zone per l’alto rischio di assalti ai bus da parte di bande armate ma fortunatamente mai mi sono trovato in quella spiacevole situazione. Bastava adottare poche accortezze - tipo non viaggiare di notte - e si poteva viaggiare abbastanza serenamente.

Nel 2015 dopo essere stato ad Ayotzinapa, nel Guerrero, arrivai a San Cristóbal dove, assieme alla compagna di viaggio e associazione Camilla e al Nodo Solidale organizzammo addirittura una serata pubblica sul Kurdistan. Tuttavia, proprio in quegli anni si cominciavano a intravedere preoccupanti segnali di cambiamento: San Cristóbal si stava rapidamente trasformando, gli zapatisti avevano imposto ai commercianti del mercato di Santo Domingo di non vendere prodotti coi loro simboli perché non appoggiavano più la rivoluzione, mentre i compas del Nodo Solidale ci raccontavano che in alcuni quartieri periferici della città e in alcune ore era meglio non avventurarsi per lo scontro tra bande armate. La lotta tra bande criminali era arrivata alla periferia di quella che una volta era il pueblo mágico di Sancrí.

Questa tendenza andò peggiorando nel 2017 - anno dell’ultima “cartolina” dal vivo - quando, per esempio, la trasformazione di San Cristóbal mi colpí moltissimo: «la San Cristóbal di oggi, invece - scrivevo di ritorno da un viaggio 7 anni fa - è una città assediata dalla ferocia del turismo di massa (a prima vista prevalentemente della "Messico bene"), che si riversa per le vie del centro alla ricerca di amenità e gadget ricordo a dir poco imbarazzanti e per nulla inerenti all'artigianato e alla cultura originaria, di locali alla moda dove spendere soldi in quantità per una pizza italianissima, un asado argentinissimo o perfino una riquisima comida libanese o coreana».

Era la fine del mandato del corrotto e violento governo di Peña Nieto e all’orizzonte si prospettava la vittoria della speranza con López Obrador: per la prima volta il Messico poteva avere un governo di “sinistra”. Andò così ma le tante aspettative furono presto tradite. Un po’ per attaccare gli zapatisti, un po’ per obbedire al padrone yanqui, il Chiapas fu militarizzato con la nuovissima e fiammante Guardia Nacional. A San Cristóbal, il controllo del territorio si spostò dalla periferia al centro, al famoso e coloratissimo mercato di Santo Domingo, dove le bande si disputavano il controllo dello stesso a suon di sparatorie di giorno e in mezzo ai turisti.

Fuori da San Cristóbal, alla frontiera sud, migliaia e migliaia di migranti cominciavano ad ammassarsi spingere per fuggire dalla miseria e dalla violenza dei paesi di origine e furono contenuti e rispediti al mittente da una politica migratoria violenta e impietosa al servizio di Trump, che nemmeno i precedenti governi di destra avevano osato tanto. Turismo di massa, tratta di persone, traffico di droga e maga progetti devastanti e impattanti come il mal chiamato Tren Maya sono stati il mix esplosivo che ha fatto “interessare” il Chiapas ai grandi gruppi del crimine organizzato. A tal proposito gli zapatisti danno una lettura interessante sul rapporto tra Stato e criminalità. Essi non sono alleati ma semplici “soci” in affari, dove il primo vende la propria “assenza” e il secondo compra il controllo del territorio: «i cosiddetti mega-progetti non portano allo sviluppo. Sono solo corridoi commerciali aperti perché la criminalità organizzata abbia nuovi mercati. La disputa tra cartelli rivali non riguarda solo il traffico di persone e di droga, ma è soprattutto una disputa per il monopolio della richiesta del pizzo in quel che malamente si chiama “Tren Maya” e “Corredor Transístmico”. Gli alberi e gli animali non possono essere tassati, ma le comunità e le imprese che si insediano su quest’altra inutile frontiera del sud-est messicano sì».

Oggi, una cartolina dal Chiapas parlerebbe sì della potenza zapatista nel resistere alla tormenta in atto e a costruire il loro futuro per lo meno per i prossimi 120 anni come dicono in un recente comunicato, ma non potrebbe non parlare della gravissima situazione sociale che vive il Chiapas e tutto il Paese. Della pericolosità nel passeggiare per gli andador turistici di San Cristóbal di notte, nel viaggiare in autobus non solo fino a Palenque ma in tantissime altre zone dello Stato, della gravissima situazione che vivono le popolazioni indigene assediate dai gruppi criminali e dalle forze militari, dei desaparecidos, di intere comunità sfollate, costrette a fuggire a causa dello scontro tra bande criminali, con lo Stato inerme e disinteressato a guardare.

Oggi, una cartolina dal Chiapas parlerebbe della delusione per un governo che si è finto amico e a lato del popolo ma che ha perpetrato e difeso le ingiustizie e l’impunità, che ha usato i popoli originari per i voti e come merce di scambio per i suoi affari. Parlerebbe delle disuguaglianze in costante aumento, dell’amicizia del Presidente coi magnati mentre fuori dal Palacio Nacional le madri che cercano i propri figli desaparecidos aspettano 15 giorni in presidio senza mai essere ricevute. Parlerebbe di un Presidente ipocrita che si fa fotografare abbracciando gli alberi e poi fa sventrare la Selva e devastare il sistema di cenote dallo Yucatán al Chiapas per costruire il treno dei ricchi, dei militari e dei gruppi criminali. Parlerebbe dell’enorme potere ceduto gratuitamente alle forze armate, che avranno pure cambiato il nome ma non l’essenza criminale che possiedono.

Oggi, una cartolina dal Chiapas parlerebbe di uno Stato in guerra non più a bassa intensità per combattere solo gli zapatisti ma di una guerra vera e propria nei confronti delle popolazioni originarie e non che vivono “en el rincon más olvidado del País”.

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