Quando muore un genocida

La notte dell’11 settembre all’età di 86 anni l’ex dittatore peruviano Alberto Fujimori ha lasciato questo mondo, un mondo che con la sua condotta autoritaria, corrotta e violenta, ha contribuito a rendere peggiore, lasciando in eredità le sofferenze e le disuguaglianze imposte con la forza e la crudeltà a migliaia di concittadini peruviani. È morto nell’impunità, senza aver scontato totalmente i suoi crimini, grazie all’indulto concesso dall’ex presidente Pedro Pablo Kuczynski nel 2017 e messo in atto dall’attuale regime di Dina “asesina” Boluarte.

È morto nell’impunità, con il disgustoso appoggio di un Congresso sempre più corrotto e impresentabile che, insieme all’Esecutivo dell’usurpatrice Dina Boluarte non solo gli ha concesso la libertà, ma addirittura anche il vitalizio in quanto ex Presidente (si presume per gli ottimi servigi offerti alla patria). È morto in libertà e con la faccia tosta di poter dire pubblicamente, solo poche settimane fa, di volersi ricandidare alla presidenza nel 2026, nonostante la Costituzione peruviana glielo vieti in quanto condannato. È morto in pace, quella stessa pace che spietatamente ha tolto alle sue vittime e alla popolazione tutta, costringendola ad anni di violenze e miseria.

La sua morte ha suscitato una catena di reazioni, alcune deplorevoli o ipocritamente buoniste, altre eticamente e moralmente giuste e insindacabili. Desde arriba, per esempio, non suscitano particolare stupore gli omaggi degli ex presidenti peruviani Francisco Sagasti e Martín Vizcarra, o i giorni di lutto nazionale decretati dal regime di Dina Boluarte che si è affrettata a riaprire le porte dello Stato al cadavere del tiranno per omaggiarlo e ripulirlo dal sangue delle sue vittime. Ma il Perù desde abajo certamente ricorderà in altro modo il dittatore: «È ovvio - mi scrive su X Sonya, cittadina peruviana residente in Italia - che i suoi fanatici fujimoristi lo piangeranno, ma per il resto del Perù, il genocida dittatore è e sarà il ricordo dell’ingiustizia nei confronti delle vittime e dell'oscena evasione della pena».

Sì, evasione della pena. Perché, come accennato in apertura, Fujimori è morto da uomo libero, probabilmente accerchiato dall’affetto dei suoi cari, prima fra tutte la figlia prediletta Keiko, vera erede politica del padre. Libero, perché nel 2017 il Presidente Pedro Pablo Kuczynski lo ha graziato a seguito di una negoziazione con Keiko Fujimori per evitare un procedimento di impeachment nei suoi confronti. Sebbene il beneficio sia stato annullato poco dopo e Fujimori abbia effettivamente scontato alcuni anni di pena in carcere, quella decisione è stata alla base della revisione del caso da parte del Tribunal Constitucional che, approfittando delle precarie condizioni di salute di Fujimori lo ha convalidato nel 2023 permettendo al regime criminale di Dina Boluarte, sotto il controllo fujimorista, di rilasciarlo concedendogli pure la pensione statale per gli ex presidenti.

L’eredità di Fujimori è dunque un’eredità di ingiustizia e impunità, violenza e corruzione. «Il giudizio della storia - scrive la Aprodeh, organizzazione di difesa dei diritti umani - lo ricorderà come il leader di un governo che seminò morte, dolore e corruzione. Nessun onore né potere politico cancellerà i crimini contro l’umanità commessi». Nessun revisionismo storico potrà cancellare l’autogolpe del 1992 con il quale ha violentato la democrazia peruviana accentrando su di sé tutti i poteri dello Stato, né le misure economiche e di privatizzazione che hanno ridotto in povertà la maggioranza della popolazione. Nessun revisionismo potrà cancellare le efferate violenze dello squadrone della morte del Grupo Colina o le condanne a 25 anni per i casi La Cantuta e Barrios Alto per essere il mandante degli omicidi di 25 persone o ancora la corruzione dilagante fatta sistema sotto il suo potere.

Anche se con la sua morte verranno archiviati i casi ancora aperti, nessun revisionismo storico potrà cancellare le sue responsabilità nelle gravissime violazione dei diritti umani messi in atto con il suo braccio destro Montesinos: il caso Pativilca, la sterilizzazione forzata di oltre 250 mila donne indigene, il traffico di armi con le FARC colombiane tra gli altri. Tuttavia, fa rabbia pensare che non solo se ne è andato senza pagare per i suoi crimini ma anche lasciando un debito di oltre 57 milioni di soles (circa 13 milioni di €), di riparazione civile relativo a 3 casi per i quali è stato condannato dalla magistratura. Debito che per la legge peruviana non sarà ereditato dai figli in quanto - pensate un po’- il vecchietto malato era addirittura nullatenente.

Per tutto questo, quando muore un genocida così crudele, cinico, spietato, non può esserci pena, non ci può essere redenzione, la morte non cancella i suoi crimini. Non ci possono essere condoglianze o inviti a mettere da parte l’odio di fronte alla morte. L’odio, se va nella giusta direzione, è un sentimento nobile e di fronte a un uomo che non si è mai pentito, non ha mai chiesto scusa, non ha mai pagato per i suoi tanti crimini, non può esserci che questo. O la festa, in Plaza San Martín a Lima indetta nei tre giorni di lutto nazionale, una festa per la memoria e la dignità, per dire ¡Fujimori nunca más!

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