In Chiapas infuria la guerra

La scorsa settimana Benemérito de las Americas, piccolo centro nel sud est del Chiapas al confine con il Guatemala, è stato teatro di una drammatica sparatoria contro una clinica privata e alcune abitazioni situate nei pressi di una scuola materna. Un gruppo di uomini coperti in volto e “armati fino ai denti” ha attraversato senza problemi le strade della cittadina su alcuni pick up scoperti e ha aperto il fuoco di fronte alla clinica seminando il terrore tra i residenti e non solo. Maestri e bambini della vicina scuola materna ne sono usciti fortunatamente incolumi ma terrorizzati per la violenza esplosa a pochi metri da quello che dovrebbe essere un luogo sicuro, di gioco e apprendimento.

Il drammatico episodio è solo l’ultimo di una serie eclatante di eventi di violenza che sta sconvolgendo il Chiapas negli ultimi mesi e che abitanti, giornalisti e attivisti locali, spesso a rischio della propria vita, denunciano quotidianamente nel silenzio assordante delle istituzioni. O con la loro stessa complicità, come nel caso del sindaco di Benemérito, Juan Gómez Morales, alias el Changarro, eletto il 2 giugno con il partito Chiapas Unido, che rappresenta direttamente il cartel di Sinaloa e che ha minacciato che avrebbe tagliato l’acqua al paese se la popolazione non si fosse schierata dalla sua parte nel conflitto. Scrive José Gil Olmo su Proceso raccontando i 30 anni di militarizzazione dello Stato e la spirale di violenza attuale: «Militari, paramilitari, governatori corrotti e la presenza del cartello di Sinaloa in Chiapas, dove Chapo Guzmán ha vissuto per alcune stagioni per trasportare dal Guatemala la cocaina proveniente dalla Colombia, fa parte del substrato di ciò che vediamo oggi: la lotta per il territorio tra i cartelli del traffico di droga che sono cresciuti sotto il patrocinio degli ultimi governi, in particolare quello di Rutilio Escandón che ha applicato la politica dello struzzo di fronte all'inferno espanso in tutto lo Stato».

Già nel marzo dello scorso anno il Centro per la difesa dei diritti umani Frayba di San Cristóbal de las Casas aveva messo in guardia sulla gravità della situazione pubblicando un report dall’eloquente titolo “Chiapas un desastre”: «In Chiapas ci troviamo nel mezzo di una diversificazione e opacità di gruppi armati che usano la violenza per il controllo sociale, politico, economico e territoriale - scrivevano nella presentazione del report - segnato dalla continuità di una strategia “contrainsurgente”; così come un'impunità incoraggiata da attori statali che contribuisce allo spoliazione, allo sfruttamento e all'emarginazione sociale. L'aumento di questa violenza ha lasciato gravi violazioni dei diritti umani, tra cui spiccano situazioni di spostamento forzato di massa e intermittente, sparizioni [137 persone sono sparite solo negli ultimi due mesi], spoliazione di terre, omicidi, torture, tra le altre cose. A tutto questo si aggiunge anche la rimilitarizzazione e un comprovato spionaggio da parte del Ministero della Difesa Nazionale (Sedena)».

In questi drammatici giorni, le autorità e in particolare le forze armate, non si sono viste a Benemérito né negli altri municipi assediati dalla violenza, lasciando campo libero ai gruppi criminali che si stanno disputando il controllo del territorio a suon di pallottole, obbligando la popolazione locale a un “auto coprifuoco” per non rischiare di finire incolpevole vittima di qualche scontro a fuoco. La situazione è talmente fuori controllo che, in via precauzionale, diversi municipi hanno addirittura sospeso temporaneamente le scuole: «Abbiamo la necessità e l'obbligo di manifestare di fronte alla situazione critica e all'ondata di violenza che sta accadendo nella nostra regione», hanno dichiarato in un comunicato i sindacati dell’educazione SNTE e CNTE. Sarebbero oltre 300 mila gli alunni costretti a rimanere a casa per colpa della violenza nello Stato.

«Nel pueblo di mia moglie - mi racconta Andrea, cittadino italiano residente in Chiapas da diversi anni - sono sotto assedio da diversi giorni e in tutta la zona selva e alla frontiera con Guatemala le cose vanno anche peggio. Migliaia di sfollati, desaparecidos, reclutamento forzato (tre miei nipoti sono dovuti scappare negli Stati Uniti e diversi giovani hanno abbandonato il pueblo per evitare problemi), case crivellate, omicidi. Se le cose continuano così, e se l’indifferenza internazionale continuerà, temo che presto saranno le comunità zapatiste ad essere sotto assedio. Sto sentendo i miei parenti lì e ci sono stato diverse volte quest’anno e negli ultimi 20 anni e una situazione del genere, per quanto non fosse esattamente un posto pacifico, non si era mai vista». Andrea lancia poi un appello a mobilitarsi: «Non so, credo che una campagna anche solo online e sui social che dica puntiamo gli occhi sul Chiapas per cercare di attirare l’attenzione sulla questione potrebbe essere utile. Dal pueblito (Benemérito de las Americas) e in generale dal Chiapas arrivano notizie veramente angoscianti e siamo abbastanza disperati».

Disperazione che sembra non toccare il Presidente Lòpez Obrador che, in più di un’occasione negli ultimi mesi, ha negato l’esistenza del problema affermando non solo che va tutto bene ma che le notizie che circolano sono solo propaganda per attaccare lui e il suo “governo del cambiamento”. «Fortunatamente negli ultimi tempi [la violenza] nella zona più colpita tra Frontera Cimalapa e Chicomuselo sta scendendo, ci fa molto piacere, abbiamo continuato a lavorare, c'è abbastanza sorveglianza», ha dichiarato solo tre mesi fa il Presidente durante la mañanera. Esternazioni francamente sconcertanti di fronte ai gravissimi fatti che quotidianamente avvengono, che farebbero rabbrividire e preoccupare chiunque, e alle denunce da parte della popolazione di totale assenza delle forze armate.

Di fronte all’escalation di violenza anche i vescovi di San Cristóbal de las Casas e della vicina Huehuetenango in Guatemala hanno preso parola denunciando come «le comunità e i villaggi di Chicomuselo, Comalapa, Amatenango, Jaltenango, Bejucal de Ocampo, Siltepec, Motozintla, sono diventati un campo di battaglia per la disputa del territorio tra gruppi criminali». I vescovi lanciano un accorato appello alle istituzioni per «lo smantellamento urgente e il disarmo dei gruppi che devastano lo Stato del Chiapas».

Il tema della violenza nello Stato del Chiapas è un punto toccato anche dall’EZLN in uno degli ultimi comunicati usciti in serie ad agosto a firma del Capitán Marcos: «La disputa tra cartelli rivali non riguarda solo il traffico di persone e di droga - scrive Marcos - ma è soprattutto una disputa per il monopolio della richiesta del pizzo in quel che malamente si chiama “Tren Maya” e “Corredor Transístmico”. Gli alberi e gli animali non possono essere tassati, ma le comunità e le imprese che si insediano su quest’altra inutile frontiera del sud-est messicano sì. Ciò garantisce la crescita di guerre per il controllo territoriale, in cui l’ologramma dello Stato nazione sarà assente».

Per i ribelli con il passamontagna la violenza della criminalità organizzata non è un’anomalia del sistema ma una conseguenza che «ci impedisce anche di capire cosa sta succedendo (e di agire di conseguenza)». Secondo gli zapatisti, Stato e criminalità organizzata hanno una comunità d’intenti: uno vuole un mercato libero da intrusi (le popolazioni originarie) e l’altra il controllo del territorio, per questo mettono in atto una “manovra a tenaglia”: «sia lo Stato che la criminalità organizzata si impadroniscono di un territorio, lo distruggono e lo spopolano, e poi arriva il grande capitale per ricostruire e riorganizzare». Non si tratta di un’alleanza ma piuttosto di «una semplice – anche se costosa – transazione commerciale: lo Stato offre una mancanza e il cartello in questione “compra” quell’assenza e sostituisce la presenza dello Stato in una località, regione, zona, Paese. Il guadagno è reciproco tra venditore e acquirente, la perdita è per coloro che sopravvivono in quei luoghi».

«Ora - concludono gli zapatisti - provate a rispondere a questa domanda: perché in uno Stato federale che è stato militarizzato da 30 anni, i cartelli e i loro conflitti aumentano proprio ora in seguito all’approvazione governativa di coloro che hanno invaso lo Stato messicano sud-orientale del Chiapas, sostenendo di voler evitare la “balcanizzazione” della Repubblica? Sì, sembra che il territorio messicano sia più frammentato che mai».

Ma chi dovrebbe rispondere a questa domanda - e a tante altre - tace, impegnato a ripulire la propria immagine per l’addio al Palacio Nacional che avverrà tra pochi mesi mentre fuori, “en el último rincón del país; el rincón más solitario, el más pobre, el más sucio, el peor”, infuria la guerra.
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