Sull'orlo del baratro: l'America Latina tra guerre, resistenze ed estallidos

«Con la crisi si amministra la paura e con la paura, come sappiamo dai tempi di Machiavelli, si esercita il potere».

In tutto il mondo la guerra è sempre più l’elemento costitutivo di questa nuova fase di riassestamento del capitalismo. Dall’Ucraina a Gaza a tutte le altre guerre dimenticate o “normalizzate”, la popolazione mondiale si sta assuefacendo a uno stato emergenziale - di crisi e di guerra permanente -dove le vittime civili perdono anche la doverosa compassione umana diventando freddi numeri statistici a cui nessuno sembra farci più caso. Anche in America Latina lo status di guerra ha invaso la vita pubblica pur con modalità differenti e meno plateali delle guerre sopra citate, ma mantenendo uguali gli effetti devastanti sulla popolazione e i territori e i benefici sempre più eccezionali per il capitalismo.

A differenza del mondo occidentale dove quasi sempre lo status di guerra è accompagnato dalla retorica dello scontro di civiltà o di difesa dello Stato-Nazione, in America Latina il nemico è interno. Nemico interno che il più delle volte è quella stessa criminalità organizzata a cui lo Stato ha regalato potere e impunità attraverso la “dichiarazione di guerra”, l’emanazione di politiche economiche neoliberiste che producono impoverimento e miseria tra la popolazione e la repressione delle forme di resistenza e autonomia presenti in tutto il continente. Nemico interno è però anche quella parte significativa della popolazione emarginata, impoverita, vulnerabile, soggettività e minoranze che chiedono e lottano per i diritti e per la difesa dei territori e che smascherano le disuguaglianze crescenti e le enormi contraddizioni del capitalismo e dei suoi alfieri.

A complicare il quadro lo scontro tra la Cina e gli Stati Uniti per il controllo politico ed economico della regione e la crisi irreversibile delle democrazie, travolte da corruzione e collusione e dove la sottile linea che separa lo Stato o le multinazionali dalle organizzazioni criminali diventa sempre più invisibile al punto da non scorgere più la differenza tra le attività legali e quelle illegali.

IL CASO ECUADOR: LA GUERRA “INVENTATA”.
Il 2024 si è aperto con l’acuirsi della crisi sociale e politica in Ecuador. L’ondata di violenza che ha travolto il Paese da qualche anno a questa parte ha visto lo Stato guardare impassibile e immobile il degenerare della situazione al punto che la criminalità organizzata non solo ha preso il pieno controllo delle carceri ecuadoriane ma anche di vaste porzioni del territorio nazionale per la gestione della merce più preziosa: la droga. Il punto di non ritorno è stata senz’altro l’irruzione da parte di una non meglio precisata organizzazione criminale in uno studio televisivo da cui, in diretta nazionale i criminali hanno seminato terrore e dato la possibilità al Presidente di approfittarne.

La risposta del governo a questi eventi drammatici infatti è stata esclusivamente repressiva. Nel breve volgere di qualche ora Noboa ha decretato lo stato di conflitto interno armato e riconosciuto come gruppi terroristici ben 22 organizzazioni criminali. Le misure di Noboa segnano un passaggio cruciale che ha fatto molto discutere perché da una parte consegna nelle mani dei militari il controllo dell’ordine pubblico ordinando alle forze armate di eseguire operazioni militari con lo scopo di neutralizzare le organizzazioni criminali, dall’altra parte perché le stesse organizzazioni criminali sono riconosciute come forze belligeranti e, di conseguenza, viene concesso loro un pericoloso status politico che prima non avevano.

Cosa significhi decretare lo stato di guerra interno non è cosa da poco: innanzitutto è un pericolo per tutta quella parte di popolazione più vulnerabile, impoverita, emarginata che vede ledere pericolosamente i propri diritti come cittadini e mettere a rischio la propria libertà dal momento che, per esempio, il decreto prevede la possibilità per le forze armate di entrare nelle case senza mandato di arresto e di godere di una sostanziale impunità in caso di “errore” o di falsi positivi. Il modello messo in atto è quello della tolleranza zero, simile a quello messo in atto in El Salvador da Bukele, con carceri di massima sicurezza (a proposito Noboa ha annunciato la costruzione di tre nuovi super carceri) e zero diritti per i detenuti.

È proprio intorno al concetto di guerra che è utile partire per cercare di comprendere bene cosa sta accadendo non solo in Ecuador ma in generale in tutto il continente americano. In questi giorni in molti hanno raccontato il ruolo delle organizzazioni di narcotrafficanti, le connessioni con la mafia albanese e i cartelli della droga messicani per il trasporto della droga verso l’Europa e il Nord America e che vede nella costa ecuadoriana, in particolare nella zona di Guayaquil, uno dei centri nevralgici di questo sistema.

Tuttavia, la tanto sbandierata “guerra al narco” nasconde una realtà più complessa che provoca, come abbiamo visto per esempio in Messico e in Colombia, gravissimi “effetti collaterali” in termini di perdita di vite umane, di desaparecidos, di controllo sociale e territoriale e di sfruttamento delle risorse. Tra le tante analisi che sono state fatte in questi giorni, quella che più convince è la ricostruzione dell’economista Pablo Davalos il quale sostiene, senza mezzi termini, che la guerra non esiste, è un’invenzione di Noboa.

Ed è un’invenzione perché il Presidente ha bisogno di un nemico per mettere in atto tutta una serie di riforme economiche che altrimenti rischierebbero di trovare l’opposizione nelle strade e in Parlamento (dove va ricordato non ha la maggioranza). Le strategie di guerra contro le droghe sono modi per ottenere controllo sociale e territoriale: il nemico interno, infatti, consente innanzitutto di poter militarizzare il Paese ed è inoltre l’argomento ideale per unire la società. Sempre Davalos afferma che così il governo di Noboa «ha la possibilità di imporre una serie di misure di aggiustamento economico senza che la società possa reagire» attuando la dottrina dello shock nella sua forma più pura.

Proprio in questi giorni, infatti, si stanno discutendo alcune leggi che vanno in questo senso: stiamo parlando dell’innalzamento dell’IVA dal 12 al 15%, della legge energetica che apre le porte alla privatizzazione dell’energia elettrica, del trattato di libero commercio con la Cina e di 20 quesiti referendari tra i quali spiccano alcuni che propongono di dare privilegi e più poteri alle forze armate. In ultimo, ma non meno importante, negli ultimi giorni Noboa ha anche annunciato la moratoria alla fine dello sfruttamento petrolifero dell’ecosistema dello Yasuní come sancito dal referendum di agosto, tradendo tra l’altro la sua stessa posizione esposta in campagna elettorale.

Emblematica la proposta di legge sull’innalzamento dell’iva che andrebbe a coprire le spese militari necessarie alla stessa guerra ai narcotrafficanti. Cioè si vuole letteralmente far pagare la guerra agli stessi attori che la subiranno in tutte le sue forme. Sulla questione dell’iva il sociologo Decio Machado mette in guardia che anche dovessero alzarla, non garantirebbe il buon esito della guerra perché «le reti delinquenziali continueranno ad avere un esercito di riserva infinito nei quartieri urbani marginali e nelle zone rurali finché non verrà ricostruito un patto sociale che affronti il tema della disuguaglianza».

Seguendo questo filo logico, le due parti in guerra diventano dunque strumentali, funzionali, l’una all’altra, due facce della stessa medaglia che si mescolano come dimostrato dalla corruzione e dalla cooptazione dei servitori dello Stato (forze armate e funzionari pubblici) all’interno delle carceri e nelle istituzioni. La vera guerra appare dunque essere chiaramente quella verso la popolazione.

Suggerisce il sociologo e giornalista Raúl Zibechi in un recente articolo che le guerre «ora non servono a difendere la sovranità delle nazioni, un ostacolo al sistema, ma ad accelerare l'accumulazione di potere e di ricchezza. In questo processo, le persone sono diventate l'ostacolo principale. Perché oggi la guerra cerca di distruggere territori per ricostruirli secondo gli interessi del capitale».

GUERRA O PACE MA SEMPRE CRISI E VIOLENZA
Lo schema ecuadoriano non è però l’unico modello esistente messo in atto dal capitalismo per il suo accumulo sfrenato di ricchezza. In Messico, ad esempio, esiste una situazione “pacificata”, almeno nelle parole del suo presidente López Obrador, il quale in questi sei anni di mandato ha fatto tutto il possibile per rappresentare una situazione opposta a quella ereditata dai suoi predecessori Felipe Calderon ed Enrique Peña Nieto, promotori della cosiddetta “guerra al narco”. Tuttavia, se guardiamo oltre alla realtà di facciata della “quarta trasformazione” scorgiamo una realtà più concreta in cui la violenza non è diminuita e l’intreccio tra Stato e narco, tra legalità e illegalità è ancora ben radicato nella società e nelle istituzioni, dove ogni giorno si contano desaparecidos, morti violenti e sfollati nonostante il tentativo del governo di nascondere o manipolare ciò che sta accadendo.

I dati ufficiali parlano chiaro: con una media di oltre 30 mila morti violente all’anno e un totale che supera le 160 mila vittime, il mandato di López Obrador risulta essere il sessennio più violento della storia del Paese, superando addirittura i sei anni dì Enrique Pena Nieto e quelli del promotore della “guerra al narco”, Felipe Calderón. Drammatica anche la cifra dei desaparecidos, arrivati a 113 mila, nonostante il governo abbia cercato in tutti i modi di limare le statistiche facendo “sparire” centomila desaparecidos.

A completare il quadro drammatico la questione dei desplazados, degli sfollati, in particolare nelle zone di frontiera del Chiapas dove è ripresa la strategia di controinsurrezione non solo nei confronti delle comunità zapatiste ma anche delle altre popolazioni indigene non aderenti all’organizzazione rivoluzionaria. Un recente report del centro di difesa dei diritti umani Frayba di San Cristóbal, intitolato Chiapas un desastre, fa emergere la gravità della situazione: «In Chiapas ci troviamo nel bel mezzo di una diversificazione e di un'opacità di gruppi armati che usano la violenza per il controllo sociale, politico, economico e territoriale, segnata dalla continuità di una strategia di controinsurrezione; così come un'impunità favorita dagli attori statali che contribuisce all'espropriazione, allo sfruttamento e all'emarginazione sociale. L'aumento di questa violenza ha portato a gravi violazioni dei diritti umani, tra cui situazioni di sfollamento forzato massiccio e intermittente, sparizioni, espropriazioni di terre, omicidi, torture».

Il tutto in una regione iper militarizzata per due ragioni: la prima è la presenza dell’autonomia zapatista (un pericoloso nemico per la “quarta trasformazione” perché oltre a costruire concretamente la propria autonomia, mette a nudo limiti e contraddizioni del governo) e la seconda per il sempre più massiccio passaggio di persone migranti che tentano di realizzare il sogno americano, un sogno da contenere a tutti i costi per non far arrabbiare il vicino del nord.

A dar continuità all’egemonia della violenza sono state senza dubbio alcune decisioni del Presidente non solo discutibili ma proprio deleterie. Quella che ha fatto più discutere è senza dubbio l’alleanza con l’esercito. Ancora una volta la violenza endemica è stata affrontata con la militarizzazione della società e nemmeno la riforma della corrotta polizia federale, trasformata in Guardia Nacional, ha potuto frenare la pericolosa deriva intrapresa. In questi anni di López Obrador abbiamo infatti visto come il governo abbia affrontato qualsiasi emergenza con l’utilizzo dei militari, in particolare nel controllo dei migranti (ovviamente su mandato degli Stati Uniti). Lungi dal risolvere una crisi umanitaria senza precedenti, il governo progressista di López Obrador ha aggravato la situazione reprimendo senza pietà i migranti e ogni tipo di dissenso interno.

Emblematica è la storia dei 43 studenti desaparecidos di Ayotzinapa: in campagna elettorale e appena insediato, López Obrador aveva promesso la fine dell’impunità ma con il passare del tempo si è allontanato dai genitori tanto che in questi sei anni si è passati dall’appoggio incondizionato ad accuse dirette nei confronti dei genitori, dei loro avvocati e perfino del GIEI, il gruppo di esperti indipendenti della CIDH (Comisión Interamericana de Derechos Humanos) che ha smascherato la “verità storica” costruita dal governo di Enrique Peña Nieto. Il nodo è arrivato al pettine nel momento in cui le contro inchieste del GIEI hanno dimostrato senza possibilità di equivocarsi che è negli archivi dell’esercito che ci sono le informazioni necessarie a scoprire la verità sulla sorte dei 43 ragazzi. Di fronte a ciò lo stesso Presidente ha alzato un muro di omertà e impunità molto simile a quello dei precedenti governi per proteggere l’esercito.

In Messico la militarizzazione della società ha raggiunto livelli inquietanti anche per un altro motivo: fin dall’inizio del suo mandato López Obrador è stato promotore di alcune grandi opere, come il Corredor Intraoceanico, il Proyecto Integral Morelos e il famigerato mal chiamato Tren Maya, che hanno subito trovato l’opposizione radicale delle popolazioni indigene presenti nei territori interessati. Questi progetti per il governo hanno il duplice obiettivo di mostrare un Messico diverso dal precedente e lanciato verso il futuro da una parte e di favorire le grandi multinazionali del mattone con progetti faraonici economicamente proficui dall’altra. Tuttavia, addentrandoci nell’argomento scopriamo che tutti questi progetti sono passati scavalcando o disinteressandosi degli studi sull’impatto ambientale, ingannando la popolazione attraverso lo strumento delle consulte popolari e imponendoli a forza nonostante le opposizioni territoriali.

Il Presidente, che in campagna elettorale si era dichiarato contro tali progetti, ha finito non solo per tradire completamente la fiducia dei suoi elettori in quei territori ma anche di attaccarli e criminalizzarli per la loro opposizione. Criminalizzazione che ha portato, per esempio, alla morte dell’attivista Samir Flores Soberanes che lottava con la sua comunità contro il Proyecto Integral Morelos, ucciso da paramilitari pochi giorni dopo il “j’accuse” nei suoi confronti da parte del Presidente.

Vista l’altissima tensione e opposizione generata da queste grandi opere, il Presidente ha finito non solo per consegnare nelle mani dei militari la sicurezza dei cantieri con l’obiettivo di evitare blocchi ai lavori, ma ha anche concesso loro la gestione economica degli stessi, dando un passo avanti determinante verso la militarizzazione degli spazi dell’amministrazione civile dei territori.

Migranti, difensori dell’ambiente e dei diritti umani, organizzazioni femministe, giornalisti non allineati sono tutti finiti nel vortice della stigmatizzazione e della criminalizzazione di López Obrador, esasperato dalla quotidiana conferenza stampa mattutina nella quale, nonostante una parvenza di libertà di espressione, lo stesso Presidente impone all’opinione pubblica la sua roboante propaganda a senso unico e senza alcuna possibilità di replica o di essere in disaccordo.

LA DOTTRINA DELLO SHOCK ECONOMICO IN ARGENTINA
Se in Ecuador lo stato di conflitto armato interno ha permesso di avviare la dottrina dello shock economico senza, per il momento, un’opposizione sociale forte, in Argentina non è stato necessario arrivare a tanto: sono bastati anni di governi bipartisan incapaci di far fronte alla crisi economica per far spuntare la figura di Javier Milei, autoproclamatosi anarco-capitalista, ma solo per nascondere il fascismo che rappresenta.

Anche in questo caso non esiste una vera e propria guerra dichiarata, ma uno stato di crisi, di emergenza, di paura, che permette al sistema di attuare delle politiche economiche che vanno a colpire in modo pesante le classi sociali più vulnerabili, garantendo profitti sempre più grandi alle élite economiche.

Il discorso populista di Milei, ha fatto leva sul rifiuto dello Stato, considerato responsabile della crisi economica e ha immaginato come risposta la progressiva esclusione dello stesso dalle questioni economiche mettendo in pratica ciò che il Fondo Monetario Internazionale promuove in tutto il mondo: privatizzazioni di ogni cosa pubblica, precarizzazione, sfruttamento e restrizione dei diritti.

Riassumendo, in Argentina la crisi provocata dal sistema economico capitalista vuole essere “curata” con una massiccia dose di capitalismo sfrenato o, per dirla meglio, va fatta pagare a chi questa crisi la subisce favorendo, ancora una volta, l’accumulo sfrenato di ricchezza da parte de los de arriba.

È interessante notare che ancora una volta le politiche economiche neoliberiste che limitano il ruolo dello Stato in materia, vanno di pari passo invece con un sempre più massiccio intervento statale in tema sicuritario: esercito e militari, quindi lo Stato, si prestano a fare da servi al capitale e a reprimere qualsiasi forma di dissenso, anche democratico.

LA GUERRA DEI GOVERNI “AMICI” E…
Sulle esperienze progressiste del continente da tempo è caduta la maschera. Sia del primo ciclo dei vari Chavez, Morales, Correa, Kirchner e Lula, sia di quello più convulso e frammentato degli attuali López Obrador, Arce, Fernandez, Petro, Boric e di nuovo Lula, abbiamo visto gli effetti nefasti nel tentativo di amministrare da “sinistra” il sistema.

Se è pur vero che le condizioni di vita della popolazione più vulnerabile è migliorata sensibilmente con questi governi, è altrettanto vero che ciò è avvenuto quasi esclusivamente nel primo ciclo perché ad essere redistribuite erano le eccedenze della ricchezza prodotta. Oggi siamo in una condizione in cui queste eccedenze non esistono più, o meglio, non vengono più redistribuite, aumentando la disuguaglianza e riportando indietro la situazione a prima dell’avvento di queste esperienze.

Nel suo quinto report di governo pubblicato a fine agosto, il Presidente messicano López Obrador ha annunciato che è diminuita sia la povertà sia la disuguaglianza in Messico secondo i dati del CONEVAL (Consejo Nacional de la Evaluación Politica de Desarrollo Social). Tuttavia, un più recente report della ONG Oxfam afferma che «l’estrema disuguaglianza di ricchezza in Messico continua ad aumentare» a causa di decadi in cui lo Stato ha concesso - e continua a concedere - numerosi benefici alle grandi imprese nazionali ed internazionali, rinunciando «a regolare la loro accumulazione di potere e influenza». A titolo di esempio, durante gli anni della pandemia, la ricchezza dell’uomo più ricco del Messico e di tutta l’America Latina, Carlos Slim, è raddoppiata, arrivando a influenzare in maniera determinante le politiche del governo.

Anche dal punto di vista ambientale possiamo osservare che non esistono governi amici, anzi, spesso sono proprio questi ultimi ad essere i più pericolosi avversari. Detto delle grandi opere di López Obrador, impossibile non citare i vari governi del MAS in Bolivia che, a partire da Evo Morales e proseguendo con l’attuale governo di Arce, hanno inferto una profonda ferita ai movimenti indigeni, cooptandoli e aggredendoli nei loro territori con il mito, tutto capitalista, dello sviluppo e della crescita. Negli ultimi anni, ettari ed ettari di ecosistemi unici sono andati bruciati in Bolivia e in altri Paesi, molto spesso con dolo, per permettere lo sfruttamento intensivo di quegli stessi territori. Per non parlare del problema minerario dove imperversano impunemente, anche all’interno dei parchi nazionali, le organizzazioni criminali dedite all’estrattivismo illegale, il tutto con il beneplacito o il silenzio del governo.

In Cile, il comunista ed ex leader studentesco Gabriel Boric ha di fatto “spento” il fuoco della rivolta iniziato l’autunno del 2019 quando, dietro allo slogan degli studenti medi “no son 30 pesos, son 30 años”, migliaia di cittadini in tutto il Paese hanno fatto tremare Piñera e tutta la destra neoliberista. Le istanze della rivolta sono state portate in Parlamento proprio da Boric che ha “barattato” l’uscita di scena del Presidente Piñera con l’avvio del processo costituente per superare la Costituzione pinochetista. Quel percorso “rivoluzionario” con il passare dei mesi, pur portando Boric a diventare presidente, si è via via spento, tanto che non solo la Costituzione in vigore è ancora quella di Pinochet, ma il governo di Boric si è dimostrato inflessibile nei confronti del dissenso studentesco e dei mapuche reprimendo ogni tipo di protesta e promuovendo l’emanazione di alcune leggi repressive.

Soprattutto però, come abbiamo visto in questi anni, le esperienze progressiste, sono poi il viatico per il ritorno di governi sempre più reazionari e autoritari. È il caso di Bolsonaro in Brasile dopo i governi di Lula e Dilma, di Moreno, Lasso e Noboa in Ecuador nel dopo Correa, della drammatica parentesi Añez in Bolivia, per finire con l’avvento di Milei in Argentina, solo per citare alcuni esempi.

… E LA RESISTENZA: ORGANIZZAZIONE DAL BASSO ED ESTALLIDOS
Per resistere a questa guerra non restano dunque che due strade: la prima è quella dell’organizzazione dal basso, declinabile in forme di autogoverno in particolare tra le popolazioni indigene e in forme di mutuo sostegno nei contesti urbani di periferia, emarginati. Le esperienze di autogoverno e autonomia sono praticate e praticabili in particolare tra le popolazioni indigene sia per la loro storia sia per la dimensione dei territori e di popolazione coinvolta. In queste esperienze le comunità non solo amministrano i territori ancestrali o recuperati ma li proteggono anche dall’avanzare del sistema all’interno delle comunità stesse attraverso l’organizzazione di guardie indigene o dell’esercito come nel caso degli zapatisti. Sono strumenti necessari in un momento in cui avanza in tutto il continente sia la violenza dei gruppi criminali sia quella statale e paramilitare e in cui è proprio nei contesti di povertà ed emarginazione che le organizzazioni criminali trovano il reclutamento spontaneo o forzato.

Nei contesti urbani delle grandi città, in particolare nelle periferie più povere e degradate, vi è lo stesso problema del reclutamento della “manodopera criminale”, ma ci sono anche importantissime esperienze di mutuo sostegno che, attraverso la solidarietà dal basso si organizzano per resistere e sopravvivere alla miseria in cui sono costretti a vivere. Tipico è il caso delle ollas comunes, dove gruppi di solidali si organizzano per alimentare un intero barrio popolare. Le ollas comunes sono state esperienze fondamentali anche durante le rivolte in Ecuador, Cile e Colombia, perché hanno permesso a centinaia di migliaia di persone di poter continuare a manifestare insieme e resistere più a lungo alla spirale repressiva dei governi.

La seconda strada è quella degli estallidos, praticata in spazi politici e sociali ben più grandi che però non sempre hanno portato a risultati. In Cile, in Ecuador e in Colombia, per esempio queste sollevazioni popolari non hanno ottenuto quanto sperato perché, a mio avviso, le rivendicazioni non sono rimaste nelle strade ma sono state trasferite negli ambienti istituzionali, perdendo la loro forza e facendosi fagocitare dal sistema. Un esempio virtuoso è invece, per il momento, quello dell’estallido panamense per la chiusura delle miniere del Paese. In questo caso la rivolta ha funzionato e ha vinto perché è riuscita nella non facile impresa di restare unita e di non lasciare nelle mani della politica istituzionale la rivendicazione.

LE VITTIME DELLA GUERRA
Una guerra, dichiarata o meno, ha sempre delle vittime e il più delle volte innocenti. Tra le tante vittime di questa guerra senza quartiere ci sono innanzitutto tutte quelle marginalità che non sono necessarie al capitalismo per produrre ricchezza. Raúl Zibechi la chiama “umanità in eccesso” e nonostante l’impegno della grande stampa internazionale e degli accademici che provano a negarne l’esistenza, è in costante aumento.

L’”umanità in eccesso” è costretta quindi a fuggire dai luoghi di origine non solo per provare a costruirsi una vita dignitosa ma anche e soprattutto per salvarla dalla miseria e dalla violenza nella quale è costretta a vivere. Vittime che, paradossalmente, fuggono proprio verso nord, verso quegli Stati Uniti che rappresentano non solo l’imperialismo storico ma anche l’attuale sistema capitalista di sfruttamento delle risorse e dei territori e della negazione dei diritti. Un dato chiarificatore: dieci anni fa erano solo circa 10 mila le persone migranti che affrontavano l’inferno del Tapón del Darién (il confine “naturale” fatto di selva impenetrabile e pericolosa tra Colombia e Panama) per migrare verso nord. Negli ultimi anni l’incremento è stato invece esponenziale: 130 mila persone nel 2021, 250 mila nel 2022 e addirittura oltre mezzo milione di persone nell’anno appena concluso.

Sono gli stessi migranti che attraversano tutto il centro America per sbattere poi nel muro eretto da López Obrador alla frontiera sud con il Guatemala. Un muro fatto di violenza da parte della Guardia Nacional, dell’esercito e dei gruppi criminali, ma anche fatto dalle violenze di un sistema repressivo che impedisce alle persone che entrano illegalmente nel Paese di ottenere i documenti, di poter lasciare la città-carcere di Tapachula o di finire in uno dei tanti centri di “accoglienza” dove vengono privati dei pochi averi e di qualsiasi tipo di diritto.

Vittime lo sono anche le popolazioni indigene. Riferendosi all’Ecuador Zibechi sostiene che la guerra intrapresa da Noboa è proprio contro i movimenti popolari in generale, e le popolazioni indigene in particolare, perché «sono il principale ostacolo che incontra oggi il capitalismo criminale, dal Chiapas al Wall Mapu, dal Pacifico all’Amazzonia. Compresi i governi conservatori e progressisti».

È proprio nel modo di vivere in armonia e rispetto con la natura delle popolazioni indigene di tutto il continente che emerge con forza il paradigma di un mondo nuovo in netto contrasto con il modello capitalista imperante che ci sta portando verso il baratro. Il recupero territoriale delle popolazioni mapuche in Patagonia, i modelli di autogoverno delle popolazioni amazzoniche in Perù e naturalmente l’imprescindibile esperienza di autonomia e autogoverno zapatista in Messico, sono solo alcuni esempi di questo.

Esempi che parlano non solo di rispetto della propria terra e di convivenza in armonia con la natura ma anche di autorganizzazione e autodifesa e proprio per questo sono nemici pericolosi per il capitalismo, perché evocano un mondo altro che non solo è possibile e concreto, reale, ma anche urgente e necessario.

Proprio per questo risultano importanti i due comunicati pubblicati a seguito dell’annuncio di conflitto armato interno in Ecuador da due importanti organizzazioni, quella del movimento indigeno della CONAIE e quello della Alianza de Organizaciones por los Derechos Humanos, una rete di organizzazioni di difesa dei diritti umani in merito al conflitto interno in Ecuador. Entrambi i comunicati partono da un punto centrale intoccabile: la solidarietà con le vittime di questa crisi.

La “pericolosità” della CONAIE sta appunto nel fatto che non solo le popolazioni aderenti mettono in pratica un modello di vita antitetico al capitalismo, ma propongono altresì un’unità desde abajo che è il vero incubo del capitalismo perché è l’unità di chi subirà nel quotidiano la violenza efferata dei narcos e dello Stato. L’unità della sola forza in grado di porre un freno al capitalismo e di costruire l’alternativa.

GUERRA SÌ, MA A LOS DE ABAJO
Quanto sta accadendo in tutto il continente, mostra chiaramente il riassestamento del capitalismo che non ha più bisogno della democrazia per l’accumulo di ricchezza e se la sta lentamente mangiando togliendole potere e legittimità e con la militarizzazione dei territori che significa, come abbiamo visto. violenza, spoliazione e controllo in mano alle élite economiche. Quella che stiamo vivendo e osservando è dunque la guerra che il capitalismo sta facendo da una parte a los de abajo e dall’altra alla democrazia non solo in Ecuador ma in diversi Paesi del continente in modi e tempi differenti come ad esempio in Argentina dove le regole democratiche sono disprezzate da Milei.

Quella che da ormai un decennio gli zapatisti definiscono Quarta Guerra Mondiale, è una guerra a trecentosessanta gradi che ci porta verso un capitalismo sempre più aggressivo, oppressivo, militarizzato e questa cosa, come abbiamo visto, la possiamo vedere in un contesto di crisi securitaria come quello ecuadoriano o di crisi economica come quello argentino, ma la possiamo ritrovare anche in un contesto più pacificato, almeno di facciata, come quello messicano dove la militarizzazione della società entra di prepotenza non solo nell’aspetto di controllo del territorio dal punto di vista securitario ma anche dal punto di vista economico con la concessione della costruzione e gestione delle grandi opere.

Come dice Naomi Klein, il capitalismo neoliberista si alimenta dei disastri naturali, della guerra e del terrore, vale a dire dello shock per stabilire il suo dominio economico. In un continente oppresso dalla violenza e stremato dalla miseria sta accadendo questo, senza che nessuna forza politica istituzionale abbia la capacità o la voglia di opporsi. «C'è una guerra tra il sistema e la natura – dicono gli zapatisti - questo confronto non ammette sfumature o codardia. O si è con il sistema o con la natura. O con la morte, o con la vita».

Pubblicato in origine su Global Project
Nuova Vecchia