Il furgone di Porfirio Diaz


Roberto era in ritardo e non era una novità. Il suo “Ci vediamo alle 6” significava semplicemente che in un momento qualsiasi della successiva giornata sarebbe passato a prenderci. Roberto era il nostro autista da sempre: statura medio bassa, faccia rubiconda con tratti indigeni, il bigote da vero macho messicano e un sorriso smagliante che non lo abbandonava mai, nemmeno di fronte ai numerosi guai che puntualmente combinava e poi risolveva. 

Con lui avevamo attraversato la Selva Lacandona in numerose occasioni e al di là dei clamorosi ritardi ogni viaggio era da ricordare per qualche disavventura tragicomica. Spingere il furgone per arrivare alla meta, rattoppare qualche guasto col fil di ferro o investire ed ammazzare un asino durante il tragitto, non erano eventi eccezionali, ma la normalità di un viaggio assieme a lui. Quella volta il suo ritardo fu solo di tre ore, causa un guasto non riparabile che l’aveva costretto a cambiare il mezzo. Al suo arrivo ci rendemmo subito conto che un’altra avventura si profilava all’orizzonte: il furgone con cui ci venne a prendere era un DMC bianco con 4 file di sedili, compresi i posti anteriori, che avrebbe dovuto ospitare ben 13 persone; non aveva un bell’aspetto, era sprovvisto di finestrini nella parte posteriore e l’aria condizionata era guasta. Tuttavia, la voglia di partire con destinazione il nord era tanta, così non ci facemmo caso e cominciammo a caricare gli zaini. 

Poco prima di partire ci accorgemmo però che al furgone mancava la targa. Preoccupati degli inconvenienti, molto probabili in un viaggio così lungo, domandammo spiegazioni e Roberto con molta calma e col suo solito sorriso, ci disse che non c’era nessun problema, indicandoci contemporaneamente il permesso temporaneo attaccato sul parabrezza. Non è che non ci fidassimo, forse era più curiosità, così andammo a guardare il permesso: il furgone era intestato a Porfirio Diaz, il dittatore messicano a cavallo tra Ottocento e Novecento! I nostri sguardi attoniti, il suo sorriso divertito, non facemmo altre domande. Le sorprese non erano però finite. Al momento della partenza Roberto se ne venne fuori che non aveva il permesso di trasportare turisti per il paese: aveva dei piccoli problemini legali con una delle sue tante mogli sparse tra Chiapas e Oaxaca e così gli avevano bloccato la licenza. Toccava a noi guidare. 

Da San Cristobal ci dirigemmo verso il mostro, quel Distrito Federal tanto vasto da perdersi all’orizzonte, come l’utopia. Da bravi compagni, ci alternavamo alla guida, giorno e notte, mentre Roberto diligentemente faceva da navigatore. Guidare era una gioia, nonostante quei maledetti topes, perché nei sedili dietro, stretti come sardine e senza che circolasse un solo filo d’aria sembrava d’essere in un girone infernale. La mattina seguente, dopo quasi un giorno di viaggio, raggiungemmo infine la capitale. Non avevamo in programma una sosta, ma ci dirigemmo comunque verso il centro per accorciare il tragitto. 

Non lo avessimo mai fatto. In uno di questi enormi viadotti tutti uguali, fummo avvicinati da una pattuglia della polizia che ci costrinse a fermarci: il venerdì pomeriggio, le auto guidate da stranieri non possono circolare per codesto viadotto. Loro malgrado, avrebbero dovuto sequestrarci il furgone. Per fortuna o purtroppo, non si accorsero chi fosse il proprietario del veicolo. L’indubbia rettitudine morale dei poliziotti la conosciamo tutti; qui in Messico raggiunge vette talmente elevate che ci volle solo una veloce contrattazione: sganciammo tre mila pesos (a fronte degli otto mila richiesti) in cambio della scorta fino a dove ci era consentito circolare. Al bivio, tanti saluti con la manina dal finestrino e finalmente ci sentimmo lib… i lampeggianti di un’altra pattuglia si fecero pericolosamente vicini: Roberto per una volta tanto si dimostrò utile e invitò l’autista ad affondare il piede sull’acceleratore, che poco più avanti c’era l’autopista, dove la pattuglia non ci avrebbe potuto seguire. Così facemmo e questa volta ci salvammo dalla seconda estorsione istituzionale. Se tralasciamo i furti ai caselli delle autopiste per “maggiorazione turistica” del pedaggio, il viaggio riprese tranquillo verso nord. Facemmo solo qualche fermata in cerca di riposo o di una spiaggia tranquilla. Andando verso nord e il deserto, il caldo dietro diventava sempre più insopportabile, finché la rotazione imposta per condividere le sofferenze portò Roberto a sedersi in ultima fila. Alla prima fermata, sparì per due ore. Lo cercammo preoccupati, finché riapparve tutto sudato ma con due piccoli ventilatori portatili. In mezz’ora, i due ventilatori erano in funzione negli ultimi posti. Non che facessero un granché, ma era comunque meglio di prima. 

Il pueblo Yaqui, a Vicam, deserto del Sonora, ci vide arrivare stravolti ma felici di avercela fatta anche questa volta, nonostante Roberto e i suoi mezzi di fortuna. Col furgone di Porfirio arrivammo poi senza altri inconvenienti di rilievo fino a Ensenada in Baja California, dove ognuno prese la strada del ritorno a casa con mezzi più confortevoli. Roberto, solo e senza vincoli poté infine riprendere la guida ma non riuscì a ritornare in Chiapas e abbandonò il vecchio furgone senza targa di Porfirio Diaz sul ciglio di qualche polverosa strada messicana.
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