Costruire autonomia, le rotte ribelli dell'America Latina

Perché è importante guardare all’America Latina

L’America Latina è sempre stata un suggestivo laboratorio per i movimenti di tutto il mondo. In questa fase, dove il nostro sguardo volge all’area mediterranea, il continente “desaparecido” ci appare lontano, non solo geograficamente, ma anche rispetto alle tematiche di lotta affrontate e soprattutto alle risposte date dai movimenti all’aggressione capitalista in atto. Ma non è così, numerose sono le suggestioni che vengono da oltre oceano. In queste righe cerchiamo di percorrere ancora una volta le vene aperte dell’America Latina per comprendere la complessità della fase che stiamo attraversando, alla ricerca di spunti che possano diventare utili strumenti in un contesto che, è bene ricordarlo, è in tutto il mondo la guerra del capitalismo in crisi contro la Vita.

IL CONTESTO POLITICO

Uno dei massimi intellettuali latinoamericani, Raul Zibechi, afferma che “Il ciclo progressista è terminato, anche se continuano a esistere governi di questo colore” [1]. La fin de ciclo ha aperto nuovi scenari politici preoccupanti, quasi ovunque le destre avanzano imponendosi ampiamente nelle tornate elettorali. L’ultima vittoria conservatrice in ordine di tempo è in Cile, tornato nelle mani del pinochetista Piñera dopo gli anni progressisti con la Bachelet. La tendenza al cambio di colore dei governi ha favorito le forzature laddove le resistenze alle destre reazionarie sono cresciute o più radicate nel territorio: è il caso dell’Honduras dove, nonostante una sollevazione popolare moltitudinaria, il presidente conservatore uscente Juan Orlando Hernandez è riuscito a farsi rieleggere costruendo, a metà scrutinio e quando era ormai certa la sua sconfitta, una “miracolosa” rimonta elettorale sul candidato di centro sinistra Nasralla. A nulla valgono le proteste, represse nel sangue, contro la protezione che gode in primis degli Stati Uniti. Un discorso più o meno simile vale per il Brasile dove è stata fatta fuori Dilma per corruzione mentre Temer, il suo sostituto, riesce a resistere al comando nonostante su di lui pesino accuse di corruzione ben più gravi.

Su tutto e tutti aleggia lo spettro della corruzione, un problema talmente radicato da non riuscire nemmeno più a produrre stravolgimenti nello status quo esistente (vedi il caso Temer). I Panama Papers prima e lo scandalo Odebrecht poi hanno messo in luce un sistema di corruzione che coinvolge senza distinzione alcuna governi di destra e di sinistra. Recentemente è finito dietro le sbarre, il vicepresidente dell’Ecuador, Jorge Glas, per aver preso 13,5 milioni di dollari proprio da Odebrecht, la multinazionale brasiliana delle costruzioni. Glas è stato un fedelissimo di Rafael Correa, uno dei volti più noti del progressismo latinoamericano degli ultimi anni. In Perù, invece, il “presidente delle banche” Pedro Pablo Kuczynski, è riuscito ad evitare l’impeachement (sempre per la corruzione di Odebrecht), al costo di concedere la grazia al vecchio dittatore Alberto Fujimori [2]. Un po’ come avviene in Italia con lo sdoganamento del fascismo da parte delle istituzioni, tra gli aspetti più inquietanti dei nuovi governi conservatori c’è il tentativo di cancellare il periodo drammatico delle dittature di cui l’indulto a Fujimori e le politiche a favore dei criminali argentini della dittatura promosse da Macri, sono gli esempi più eclatanti.

In questo clima reazionario, resistono Bolivia e Venezuela. Mentre Morales è alle prese col tentativo di farsi rieleggere per la quarta volta nonostante nel febbraio 2016 un referendum popolare abbia posto il veto degli elettori all’eventualità, il Venezuela di Maduro ha passato mesi a difendersi dagli attacchi politici, di piazza e mediatici delle destre ed ora sembra aver recuperato un po’ di stabilità. Ma la svolta conservatrice ha prodotto anche nei governi progressisti una virata a destra, come testimoniato dal governo di Lenin Moreno in Ecuador, accusato dal suo predecessore Rafael Correa di aver tradito il suo partito, gli ideali e gli elettori o dal governo di Maduro che sempre più è costretto ad usare la forza militare per non cadere sotto i colpi sempre più forti a cui il suo governo è sottoposto.

Un ultimo aspetto da considerare è il sempre più predominante ruolo della Cina nell’economia latinoamericana. Ancora Zibechi sostiene che non si stia comportando come un classico paese imperialista soprattutto perché non interferisce politicamente negli stati in cui è presente e le corporation che operano all’estero sono tutte sotto il controllo statale, non esiste cioè una oligarchia finanziaria separata dallo stato [3].Affermazione per lo meno discutibile, infatti, come si può definire nel concreto l’intervento operato dalle varie imprese cinese che si insediano nei territori per costruire dighe ed estrarre materie prime? Sebbene non vi sia una forzatura politica, il risultato non è poi tanto differente dall’imperialismo classico, dove a rimetterci sono sempre le popolazioni autoctone. Innegabile resta comunque lo scontro in atto con gli Stati Uniti per il controllo del territorio e delle sue risorse.

LA QUARTA GUERRA MONDIALE

Gli zapatisti la chiamano la Quarta Guerra Mondiale. L’estrattivismo ha radicalmente e drammaticamente cambiato la società. Dice Raul Zibechi: “Il modello [estrattivista] depoliticizza e disorganizza la società che si articola solamente mediante il consumo. È qui che le destre mordono. Il consumismo è l’altra faccia della società estrattiva. Una società che non genera soggetti, né identità forti, con valori vincolati al lavoro degno, ossia produttivo, bensì solo ‘valori’ mercantili e individualisti, non si trova nella condizione di potenziare progetti di lungo respiro per la trasformazione sociale”. Di questa cosa sono responsabili anche i governi progressisti, infatti, sempre secondo Zibechi “Le politiche sociali del progressismo, soprattutto l’inclusione mediante il consumo, hanno moltiplicato gli effetti depredatori in termini di disorganizzazione e depoliticizzazione.”

Nell’estrattivismo la distruzione della società umana va di pari passo con la distruzione e il saccheggio dei territori. Dalla Terra del Fuoco all’Alaska, l’intero continente è preda e prigioniero di questo sistema che come un vampiro succhia il sangue fino a far morire tutto. Non si contano gli esempi, dai mapuche ai Dakota, passando per gli aymara e i wixarika, le terre di queste popolazioni sono sotto attacco. I territori interessati dallo sfruttamento intensivo sono sempre più zone extra statali, regalati dagli stati alle varie corporation. Poco importa se al loro interno non ci sia il rispetto dei diritti umani, poco importa se la violenza sia il metodo di governare questi territori. Il caso più eclatante e recente è quello appunto dei mapuche: da quando Macri ha vinto le elezioni, ha iniziato una dura repressione che in molti sostengono prenda spunto dalla famigerata “Conquista del Deserto”, con cui intorno al 1870 l’Argentina conquistò la Patagonia e sterminò le popolazioni indigeni. La repressione ha raggiunto livelli preoccupanti ad agosto quando è stato fatto sparire Santiago Maldonado e a novembre quando è stato ucciso dalla Gendarmeria Rafael Nahuel, il primo sostenitore della causa mapuche, il secondo giovane indigeno. A trarre beneficio da questa nuova situazione, i possidenti terrieri, tra i quali spicca la famiglia Benetton con i suoi 900 ettari di terra sottratti e occupati illegalmente alle popolazioni mapuche. 

Per Gustavo Esteva, pensatore messicano vicino ai movimenti “Il capitalismo ha già raggiunto i suoi limiti economici, sociali ed ecologici. Ecco perché si getta contro tutto e tutti. Dissolve lo stato-nazione, che era l'Arena in cui è riuscito a espandersi e ora è un ostacolo. Nega e corrompe la democrazia, che era la sua forma politica, perché per saccheggiare, ha bisogno della polizia e dell'esercito, non di una facciata democratica. Dissolve ogni giorno ciò che era rimasto dello stato di diritto, che serviva a proteggere il suo funzionamento, perché ora usa la legge per stabilire l'illegalità e per garantire l'impunità” [4]. In questo senso il caso del Messico è esemplare: l’intreccio narco politica con la corruzione e la violenza che si porta dietro spiega bene il livello raggiunto dal sistema estrattivista. In Messico (il cui ultimo regalo di Enrique Peña Nieto è stata l’approvazione della ley de seguridad interior [5] con cui si legittima l’uso dell’esercito per sedare le proteste) per limitare i danni di questa catastrofe proveranno ad affidarsi al solito schema elettorale che, visti i risultati degli ultimi anni nella regione, possiamo definire “del meno peggio”. AMLO (Andres Manuel Lopez Obrador, candidato di Morena, il “partito-movimento”) probabilmente vincerà. E, chiariamolo definitivamente, per la situazione attuale del Messico, potrebbe essere un bene perché nell’immediato è l’unica speranza di veder diminuire drasticamente il numero di morti e desaparecidos prodotti dalla narcoguerra: stiamo parlando di oltre 200 morti e oltre 35 mila desaparecidos negli ultimi dieci anni. Per i movimenti però questa eventualità non deve essere il punto di arrivo: lo abbiamo già ribadito più volte, i governi amici non esistono e pure in questo caso non avremo un governo amico del popolo, anticapitalista, ma forse solo un salvagente contro la dilagante violenza che ha investito il paese. AMLO, come del resto gli altri “padri” del progressismo latinoamericano, non promette di rovesciare il sistema capitalista estrattivista, semmai lo vuole governare da sinistra, con tutte le contraddizioni impossibili da sostenere viste in questi ultimi dieci anni.

LA VIA ELETTORALE

Dopo dieci anni di progressismo possiamo fare alcune riflessioni. Come detto da più parti, la via progressista non è stata una via anticapitalista, ma un compromesso, il tentativo cioè di gestire da sinistra processi di globalizzazione neoliberale. E i fallimenti sono sotto gli occhi di tutti. Il progressismo ha resistito fino a quando i prezzi delle materie prime, in particolare del petrolio, hanno resistito permettendo alle economie locali un benessere mai visto in precedenza. Questo benessere ha favorito di certo gli strati più deboli della popolazione, ma non ha eroso gli utili dell’1% della popolazione che ha in mano le risorse. “Il ‘miracolo lulista’ è consistito nel migliorare le condizioni dei poveri senza toccare i privilegi dei ricchi" [6], afferma Zibechi, che poi aggiunge: “Da quando è arrivato al governo, il PT ha stretto alleanze con i grandi imprenditori e con il settore finanziario, è stato un grande difensore dell’agronegocio e sotto il suo governo le banche hanno ottenuto i maggiori profitti della loro storia.” Inoltre, le morti violente di bianchi sono scese del 25 per cento, mentre le morti violente dei neri sono cresciute del 40: “È il modello estrattivo che permette questa crescita della violenza tra i settori più poveri.” Le politiche messe in atto da questi governi non hanno ridimensionato nemmeno l’estrattivismo e lo sfruttamento dei territori. Riferendosi alla Patagonia, il giornalista argentino Dario Aranda su LaVaca afferma: “[Lo sfruttamento delle materie prime] nei territori avvenne durante il governo Kirchner. Due esempi: da 40 progetti minerari in studio (nel 2003) a 800 progetti (nel 2015); da 12 milioni di ettari con soia transgenica a 20 milioni (22 oggi)” [7]. Simbolicamente a questo collasso del progressismo si può far coincidere la morte di due tra i leader più importanti e carismatici del Novecento e dei primi anni del nuovo secolo: Fidel Castro e Hugo Chavez, pur nelle contraddizioni che hanno segnato la sua figura e il suo agire politico. La loro eredità, politica, di carisma e personalità, è un vuoto attualmente impossibile da riempire.

La via elettorale è sempre stata il problema cardine dei movimenti, di tutto il mondo. Buona parte dei dirigenti di movimento che hanno intrapreso questa via, sono finiti cooptati dal sistema, tradendo compagni e ideali e creando soprattutto un grosso danno ai movimenti stessi, che si sono divisi tra chi è rimasto autonomo e chi invece ha optato per la via governativa. A questo va aggiunta l’inaffidabilità del sistema che garantisce la democraticità delle elezioni. Se guardiamo all’Honduras di oggi, troviamo la risposta: dove gli interessi in gioco sono messi a rischio dalla democratica alternanza dei poteri, l’intervento esterno garantisce la continuità del sistema attraverso azioni volte a modificare la reale scelta elettorale. Smarcarsi dall’ingenuo gioco democratico secondo il quale il cambiamento si ottiene solo attraverso la vittoria elettorale è l’imperativo di questa fase: la democrazia ha perso valore, urge quindi ripensare a come intervenire per portare quei cambiamenti rivoluzionari nella società che ci prefiggiamo.

LE RESISTENZE. AMBIENTE, MIGRAZIONI, REDDITO, PROSPETTIVE DI GENERE.

La nostra analisi dell’attualità ha individuato in difesa dell’ambiente, migrazioni, reddito, prospettive di genere, i quattro grandi nodi in cui riversare il nostro agire politico. Quattro temi che affrontiamo in sinergia perché l’attacco capitalista si consuma proprio su questi fronti. Anche le battaglie che osserviamo crescere in America Latina vanno in questa direzione.

DIFESA DELL’AMBIENTE

Secondo Global Witness, organizzazione di difesa dei diritti umani, il continente è il più pericoloso per chi difende l’ambiente [8]. Berta Caceres, uccisa nella sua casa in Honduras la notte del 2 marzo 2016 da sicari della multinazionale Desa perché si opponeva alla costruzione di una diga nel territorio sacro del popolo Lenca, è il simbolo di questa che è a tutti gli effetti una guerra alla Vita, sotto ogni sua forma, umana, animale, vegetale. Tuttavia le organizzazioni che si battono per difendere i propri territori sono sempre di più e più determinate. Anzi, a nostro avviso, sono proprio questi piccoli focolai di resistenza all’estrattivismo il cuore pulsante delle lotte. Oltre alla già citata battaglia di Berta Caceres e del Copinh in Honduras, ricordiamo i mapuche che lottano contro l’usurpatore di terre Benetton, le centinaia di popolazioni delle Ande e maya che resistono all’aggressione dei loro territori in sud e centro America, fino ad arrivare ai Dakota che si difendono dall’oleodotto. Il rifiuto del modello estrattivista colpisce in larga misura piccole comunità che hanno la “sfortuna” di abitare da secoli sopra a risorse naturali appetite dalle multinazionali estrattiviste. Altro punto fondamentale da tenere presente è il legame che ci unisce allo sfruttamento di questi territori, infatti, in tempi recenti i nostri Primo Ministro Renzi e Gentiloni sono volati diverse volte al di là dell’oceano per viaggi di stato: se ci addentriamo nei motivi di questi viaggi troviamo naturalmente gli accordi commerciali stretti con vari Paesi, Messico soprattutto, per spianare la strada alle nostre grandi eccellenze italiche, Eni ed Enel su tutte, i cui interessi per le risorse energetiche di queste terre sono davvero elevati. Come non citare per esempio, la nuova “avventura” di Eni in Alaska, la prima multinazionale a ottenere il permesso di trivellare il mare di Beaufort dopo che il presidente Donald Trump ha tolto i vincoli ambientali posti dall’amministrazione Obama? [9] 

Anche per questo non possiamo rimanere impassibili a guardare: se ciò che diciamo quando mettiamo i nostri corpi a difesa dei territori dove viviamo è valido qui, deve essere altrettanto valido in tutto il mondo, non può esistere il nostro benessere sulla pelle di altre popolazioni. Non siamo per il colonialismo.

Sul tema della difesa dell’ambiente sono le popolazioni indigene che stanno indicando il percorso di lotta. Secondo il filosofo Noam Chomsky “Le comunità locali sono la chiave per prevenire i disastri ambientali che paesi come Stati Uniti e Canada stanno propiziando. In tutto il mondo sono questi gruppi che stanno mitigando il cambio climatico attraverso piani per gestire le risorse naturali, le conoscenze ancestrali e, non meno importante, attraverso la difesa dei loro territori: sono queste comunità che si oppongono alle imprese straniere che estraggono e svuotano i loro terreni dalle risorse naturali dell'America Latina: minerali, olio di Palma, acqua, terra” [10]. L’aggressione capitalista continuerà, le lotte dei popoli per difendere la propria terra, anche.

MIGRAZIONI

L’ultimo e recente rapporto dell’ONU sulle migrazioni stima in 258 milioni le persone migranti nel mondo. Tra queste, oltre 26 milioni sono rifugiate, vale a dire persone perseguitate nel paese d’origine e per questo costrette a trovare rifugio in altri paesi [11]. La rotta che conduce al sogno americano è percorsa da oltre 12 milioni di persone, la prima su scala mondiale, e trova il suo punto caldo nelle frontiere sud e nord del Messico e all’interno dello stesso. Si, non è solo il “muro di Trump” a respingere i sogni e le speranze di milioni di persone. Come raccontato dalla recente carovana dell’associazione Ya basta! Êdî bese! [12], il Messico è diventato il poliziotto cattivo dei cugini del nord. Un po’ come la Libia con l’Italia. I migranti che arrivano dal sud sono costretti ad affrontare non solo gli ostacoli della burocrazia, non solo i pericoli della “migra” messicana (la polizia di frontiera), ma anche la violenza delle organizzazioni criminali, in un clima di vera e propria guerra e militarizzazione del territorio. Il narcoestadomix è terrificante; se le immagini dei lager libici ci fanno gelare il sangue nelle vene, ciò che succede ai migranti in transito in Messico non è tanto migliore: secondo le organizzazioni di diritti umani i migranti morti e desaparecidos (di cui è bene precisare poco si sa per la clandestinità in cui vivono) potrebbero essere oltre 100 mila negli ultimi dieci anni. La complessità del tema e il considerevole numero di persone che coinvolge meritano un’approfondita analisi globale, qui solo abbozzata, e soprattutto strategie comuni per garantire il diritto alla mobilità di tutte e tutti.

REDDITO

Il terzo elemento che contraddistingue questa fase è la difesa del reddito, inteso come insieme di diritti, in particolar modo quelli legati al lavoro. Secondo la CEPAL (Comisión Económica para América Latina y el Caribe) nel 2016 il 30,7% della popolazione dell'America Latina viveva in povertà: stiamo parlando di oltre 186 milioni di persone [13]. Tagliare i diritti conquistati o non concederli è uno strumento di sistema per difendere i privilegi di pochi e naturalmente per avere un controllo più ferreo sulla popolazione che ne subisce le conseguenze. Sono le recenti manifestazioni in Argentina contro la riforma delle pensioni a darci lo spunto per una riflessione sul tema dei diritti. Proprio nelle ultime settimane abbiamo assistito a un’incredibile mobilitazione contro l’approvazione di un decreto voluto dal presidente Macri che avrebbe tagliato le pensioni. Questa grande mobilitazione (si parla di oltre 300 mila persone scese in piazza), la sua potente radicalità nello stare in piazza, è riuscita a mettere un freno alle ambizioni di Macri, bloccare momentaneamente l’approvazione di questa legge, ma soprattutto a far perdere consenso al presidente e a unire l’opposizione sdoganando nuove pratiche di movimento. Questo risultato è costato caro, centinaia i feriti e gli arrestati, vittime di una repressione statale che ha passato il limite democratico del controllo di piazza, ma è stata una mobilitazione che segna sicuramente un momento di svolta per i movimenti argentini. Allo stesso modo, importanti e partecipate sono state le manifestazioni di qualche mese fa in Cile sempre contro il sistema pensionistico, come pure l’attiva e radicale mobilitazione degli studenti cileni contro la privatizzazione dell’istruzione.

NI UNA MENOS E LA PROPOSTA ZAPATISTA

Il sistema patriarcale è parte fondante dell’organizzazione di dominio e controllo che il potere usa per sottomettere. I vecchi e nuovi movimenti latinoamericani ne hanno preso atto e hanno cominciato un percorso di lotta che parte da un chiaro e semplice presupposto: non può esserci una rivoluzione che non sia femminista. Il movimento “Ni una menos” e la candidata indigena dell’EZLN e del CNI rappresentano perfettamente questo passaggio, dove a diventare protagoniste dell’azione politica sono le donne.

La partecipazione alla gara elettorale del Congreso Nacional Indigena e degli zapatisti si sta palesando per quello che sempre hanno sostenuto gli zapatisti: non un’operazione politica volta alla conquista di qualche poltrona ma l’apertura del movimento stesso a tutte le realtà sociali che animano il suolo messicano. Le difficoltà nel raccogliere le firme, i continui ostacoli messi in essere dalle autorità per interferire con la raccolta ci mostrano quello che probabilmente gli zapatisti già sapevano, ovvero l’impossibilità di riuscire ad entrare nel cerchio magico del sistema elettorale in autonomia, senza agganci, alleati o favori di sorta. Quello che però non hanno potuto impedire los de arriba è il camminar domandando degli zapatisti, che in questi mesi stanno attraversando in lungo e in largo il Messico, alla ricerca non di firme, non di voti, ma di organizzazione, di cittadini che si sentono indigeni non per questioni etniche, ma per questioni politiche e sociali. Che la portavoce di questo movimento sia una donna, Marichuy, non è solo un caso, ma il frutto di un ragionamento realmente anticapitalista che vede nel sistema machista e patriarcale parte fondamentale del sistema estrattivista. La candidatura indigena di Marichuy, ha sicuramente il suo retroterra culturale nella legge rivoluzionaria delle donne zapatiste e il suo percorso è legato a stretto filo al movimento Ni una menos nato in Argentina alcuni anni fa contro la violenza di genere e che ha avuto ripercussioni non solo sull’intero continente americano ma è arrivato perfino in Europa. Seppur in mezzo a discontinuità e mancanza di fluidità con altri movimenti, assistiamo anche a una rivendicazione di dignità e diritti da parte dei movimenti LGBT. All’interno del movimento contadino brasiliano dei Sem Terra, per esempio, c’è l’affermazione di collettivi LGBT, che testimonia l’apertura e la desiderio di crescita del movimento stesso. Le lotte sul genere e quelle sull'orientamento e sulle identità sessuali, sono parte di un unico insieme perché parliamo sempre di imposizioni di ruoli, normazione del desiderio e sessismo [14].

Il sistema capitalista, infatti, poggia le sue basi sul sistema patriarcale: l’utilizzo della forza, la costrizione a determinati ruoli sociali come metodi di controllo sociale e politico. È per questo che la candidatura indigena è un’immagine simbolicamente potente, perché trasmette tutta la forza che il femminismo ribelle può dare alla lotta anticapitalista.

La nostra è una vocazione “globale”, siamo attori politici protagonisti nei nostri territori e stiamo con chi in tutto il mondo ha le nostre stesse aspirazioni, rovesciare l’esistente e costruire un mondo nuovo. Per questo, è importante sapere cosa succede oltre l’orizzonte, quali lotte, quali strategie, quali dinamiche sociali si sviluppano per resistere allo stesso nemico, il sistema capitalista. Nonostante la fine del ciclo progressista, nonostante le nubi conservatrici e reazionarie che incombono su tutta la regione, l’intero continente è percorso da piccole scosse rivoluzionarie rilevanti, potenzialmente in grado nel prossimo futuro di essere volano per una nuova importante stagione di lotta. E ultimo, ma non meno importante, scalda il cuore e dà coraggio sapere di non essere soli, sapere di avere sorelle e fratelli lontani che come noi resistono, camminano domandando, immaginano e costruiscono il mondo nuovo.

Foto tratta da Emergentes















Articolo tratto da Global Project
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