La notte è fatta per amare

 

Come ogni sera, dopo aver allestito il centro di accoglienza, ci apprestavamo ad uscire per percorrere le strade delle nostre due città. Anche per quella notte avremmo ospitato venti quattro persone senza dimora che avremmo incontrato per le strade della terraferma mestrina e per le calli del centro storico veneziano.

Eravamo gli operatori di strada della cooperativa Caracol e facevamo parte del Progetto Senza Dimora del Comune di Venezia, un progetto costruito dal basso da militanti dei centri sociali che in una gelida sera di inverno di qualche anno prima avevano occupato la sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Mestre, stanchi di vederla chiudere a mezzanotte scacciando in malo quanti non avevano altro rifugio per le fredde ed umide notti invernali della terraferma.

Come ogni sera Sergeto era seduto sulla solita sedia della sala d’aspetto della stazione di Mestre. Sembrava addormentato, aveva un cappello di lana tutto sgualcito calato sugli occhi, la solita giacchetta di un colore indefinito troppo leggera per le rigide temperature di quel periodo e un paio di pantaloni di tre taglie più grandi che sembravano appena usciti da una miniera di carbone.

Da giovane - me lo immagino - doveva essere stato uno di quegli uomini piccoli e magri ma pieni di forza e di muscoli, un po’ Popeye, un po’ Francis Begbie. Di quei tempi andati però non conservava che i ricordi e la corporatura minuta, mentre tutto il resto metteva in luce il peso degli anni e di una vita di strada molto più dura di quella che un essere umano dovrebbe poter sopportare.

Non c’era lavoro che non avesse fatto da giovane, ma se gli chiedevi quale fosse stato quello più incredibile che avesse mai fatto cominciava a raccontarti di quando si era imbarcato per l’Australia e per lunghissimi anni aveva fatto il marinaio. I suoi racconti erano spesso confusi a causa dell’età, dalla lontananza nel tempo e dall’alcol, ma erano storie comunque straordinarie come solo i marinai sanno raccontare, storie che si ripetevano ogni sera in modo diverso con particolari sempre nuovi, magici e incredibili.

Il Sergeto che avevamo di fronte avvolto nei suoi stracci, ora era un uomo sulla settantina ma che ne dimostrava almeno novanta. Il suo aspetto trasandato e l’odore acre di alcol, misto a sudore e urina che si portava sempre dietro, faceva si che chiunque entrasse nella sala d’aspetto lo etichettasse subito per quel che appariva, un clochard, e se ne allontanasse rapidamente con lo sguardo disgustato.

Non è mai facile vivere in strada, tanto più se il peso degli anni comincia a farsi sentire e l’umanità tutto intorno a te ti ripudia appena ti vede, o ti sente, arrivare. Così per Sergeto, non eravamo solo quelli che gli portavano una bevanda calda, una coperta o che lo portavamo a dormire nel centro di accoglienza. No, per lui eravamo soprattutto quel che rimaneva di umanità in un mondo disumano, che lo aveva respinto, tradito, abbandonato. Qualcuno che lo accettava per quel che era e senza giudicare gli tendeva la mano.

Quando ci sentì arrivare, alzò subito gli occhi. Il sonno di un clochard non è mai profondo, c’è sempre bisogno di rimanere vigili, anche quando si dorme, che i pericoli possono essere dietro l’angolo e arrivare in qualsiasi momento. Si avvicinò e subito ci chiese con modi educati ma allo stesso tempo burberi se quella notte avremmo potuto ospitarlo.

Erano molte notti che non veniva a dormire da noi. Sapeva che i 24 posti letto che avevamo a disposizione li gestivamo a turnazione tra il centinaio di persone che ogni sera incontravamo in strada ma sapeva anche benissimo che donne, anziani e persone ammalate avevano per noi la precedenza. Tuttavia, con molto altruismo verso le persone con cui condivideva la situazione di vita di strada, quasi mai faceva prevalere questa sua corsia preferenziale dovuta all’età preferendo chiedercelo quando proprio non ce la faceva più e sentiva urgente il bisogno di una doccia calda e di un letto morbido dove poggiare il suo corpo stanco.

Quella sera sembrava particolarmente stanco così, finito di distribuire bevande calde, brioches e coperte, ce lo portammo subito in furgone, anche se la nostra prossima meta sarebbe stata Venezia e non il Centro di Accoglienza. Non ci spaventava la puzza, ormai non ci facevamo più caso, tutto era ripagato dai suoi racconti incredibili e indimenticabili e dall’allegria che portava sempre con sé.

Arrivati a piazzale Roma, l’equipe del centro storico ci consegnò altri utenti da portare al centro di accoglienza tra cui una ragazza dell’est, che da qualche giorno aveva perso il lavoro di badante e con esso anche la casa dove vivere. Sergeto si fece subito vispo ed attaccò bottone, evidentemente affascinato da quella giovane donna.

Il tragitto da Venezia alla zona industriale di Porto Marghera, dove aveva sede il centro di accoglienza all’interno degli spazi del Centro Sociale Rivolta, trascorse in modo allegro con Sergeto che raccontava le sue gesta e tutto il furgone che lo ascoltava attento e divertito.

D’un tratto però diventò serio e raccontò che gli avevano assegnato un letto in un dormitorio cittadino ma che lui non ci voleva andare. La ragazza cercò di convincerlo: «Sergio - gli disse - devi andarci, tu sei vecchio, la notte devi riposarti». E lui, tornando immediatamente il guascone che tutti conoscevamo, la guardò ammiccante e le rispose: «vecia mia, go fato el marinaio in Australia che no ti geri ancora nata… la notte è fatta per amare».

Ci sono diversi modi di intendere l’amore e forse ho frainteso l’interpretazione che ci dette Sergeto quella sera, ma aveva assolutamente ragione: quelle notti a fianco degli ultimi, dei diseredati, degli sbandati, degli sconfitti sono state notti piene d’amore per chi non aveva niente, per l’umanità, per la vita.


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