Dino Baggio e il doping inconsapevole

Nei giorni scorsi un’intervista all’ex calciatore Dino Baggio ha fatto molto discutere. Sentito a seguito della morte di Gianluca Vialli, l’ex calciatore della Nazionale ha espresso i suoi timori per le sostanze sconosciute assunte durante la sua carriera, chiedendo alla scienza di fare chiarezza sulle possibili conseguenze negative a cui i calciatori di quell’epoca potrebbero andare incontro.

Le parole di Dino Baggio hanno suscitato polemiche non solo sui social ma anche tra gli ex calciatori di quel periodo. Massimo Brambati ha ammesso di “aver assunto micoren come fossero caramelle” mentre Florin Raducioiu ha denunciato che prima delle partite gli venivano somministrate flebo di una non meglio precisata sostanza rosea. Altri ex giocatori hanno invece preso polemicamente le distanze da Dino Baggio, come Angelo Di Livio e Massimo Di Carlo, negando ci fosse la pratica di assumere sostanze e integratori e che ci sia una correlazione tra l’assunzione delle stesse e le morti di tumore come avvenuto per Vialli e Mihajilovic.

Non faccio fatica a credere alle parole di Dino Baggio, Massimo Brambati o Florin Raducioiu. In quegli anni ero un aspirante ciclista nelle categorie giovanili e ricordo bene che il doping era sulla bocca di tutti, in particolare di chi praticava sport a livello agonistico. Certo calcio e ciclismo erano e rimangono due ambienti completamente diversi tra loro come diverse erano certamente le pratiche, tuttavia una cosa in comune ce l’avevano: la stessa necessità dei praticanti di assumere sostanze per migliorare le proprie prestazioni sportive.

Delle mezze accuse lanciate da Dino Baggio e degli altri ex calciatori non mi torna però questa narrazione così totalmente inconsapevole e sprovveduta, a maggior ragione che si tratta di ex professionisti di alto livello. Come se avessero chiuso il cerchio o ne venissero a conoscenza solo ora che alcune dolorose morti hanno fatto sorgere dubbi e preoccupazioni. Mi spiego meglio: già a 16 anni ero ben cosciente di cosa era lecito fare e cosa no, di cosa dovevo stare attento per non cadere nella rete dell’antidoping (ma quando mai, in dieci anni di agonismo mai visto un antidoping che fosse uno!) e soprattutto di quali erano gli effetti collatorali delle porcherie che circolavano nell’ambiente. 

Mi ci vollero pochi anni di juniores e ancor di più tra gli under 23 per farmi una cultura sul doping, sulle sostanze illecite, su come trovarle senza correre rischi, su cosa e come ci si faceva in vena, intramuscolo o sottocute. Aspiranti infermieri, altro che aspiranti ciclisti. Per esempio, in quel periodo andava di moda l’epo e nonostante non l’abbia mai preso perché il mio ematocrito superava naturalmente i 50 (soglia massima consentita), sapevo tutto su di lui, comprese le nefaste controindicazioni a cui si andava incontro se si esagerava nel trasformare il proprio sangue in marmellata. Come sapevo benissimo che il prolungato abuso dell’ormone della crescita, per gli amici ciclisti “gh”, poteva causare infarti cardiaci o gravi danni al fegato. Infine, sapevo benissimo che seppur era una scelta rischiosa per chi voleva puntare alla carriera sportiva, era anche una scelta obbligata perché il sistema esigeva quel tipo di approccio alla carriera sportiva.

Ecco perché mi sembrano quanto meno ipocrite le velate accuse di Dino Baggio: se pure io, che non son mai stato un professionista e che non ho praticamente mai assunto sostanze illecite (a parte una o due caffeine e una amfetamina giusto per curiosità sugli effetti sportive - non ne valse la pena senza un’adeguata “cura” a tutto tondo - ) ero cosciente dell’esistenza del doping e delle gravi conseguenze che poteva determinarne l’abuso, come poteva un professionista di alto livello ignorare tutto ciò? Come poteva assumere una qualsiasi sostanza, dopante o meno, senza porsi o porre qualche domanda? A maggior ragione che in quegli anni tra scandali e polemiche non si parlava d’altro nei quotidiani sportivi e non.

Il dubbio è che ancora una volta chi denuncia voglia solo discolpare sé stesso, tirarsi fuori dal fango nel quale si è vissuto e si ha guadagnato fior di quattrini, senza mettere in discussione il sistema, perché il doping è sempre quello degli altri. E allora ha ragione il vecchio saggio del calcio italiano, Zdenek Zeman, forse l’unico professionista di cui ci si possa fidare che, intervistato sull’argomento ha rilasciato una dichiarazione chiara, semplice ed esaustiva che chiude la polemica: «Non frequento più il calcio come un tempo, ma non credo proprio che sia uscito dalle farmacie. Doping, integratori, medicine, muscoli. Io provai a smuovere qualcosa, a cambiare il sistema, allora. E loro dov'erano? Perché non hanno parlato 25 anni fa? Non l'hanno fatto perché erano parte di quel sistema, perché in quel sistema vivevano e guadagnavano bene. Allora non gli conveniva e sono stati tutti zitti. Io ho parlato con quei toni nel 1998 per provare a riparare il calcio stando all'interno di quel mondo - prosegue Zeman -. Mi sarebbe piaciuto provare ad aggiustare qualcosa perché era ormai diventato un business e sempre meno un gioco. Mi diedero del terrorista, del pazzo. Mi dispiace che quel messaggio non sia stato recepito. Servì solo a far muovere appena le acque, ci furono inchieste ma poi tutto finì in una bolla di sapone. La situazione non è migliorata e ora stiamo peggiorando».

Per chi ha vissuto dall’interno il mondo dello sport di quegli anni la narrazione inconsapevole quindi non regge, appare una narrazione superficiale, ipocrita perché non mette in discussione il sistema. Come non reggono le scuse fantasiose quando qualcuno casca nella peraltro blanda rete dell’antidoping (le famose bistecche con gli anabolizzanti o le borracce prese da estranei e molto, molto altro ancora, la letteratura è piena di esempi creativi). Il doping non è mai inconsapevole, non è un nemico astratto o impalpabile di cui non si sa niente, ma un elemento che accompagna la vita sportiva degli atleti nascosto dietro la coltre omertosa del sistema.

E proprio per questo difficile da combattere.
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