Il razzismo e il peso delle parole


Cherif è un ragazzotto di 28 anni che gioca a rugby per il Benetton Treviso e per la nazionale italiana. È originario della Guinea ma in Italia da quando aveva sette anni. Fa il pilone, uno dei ruoli più duri della palla ovale, in prima linea a contrastare, appunto per primo, gli attacchi degli avversari che vogliono andare in meta. Nei giorni scorsi Cherif ha dovuto contrastare un altro tipo di attacco, un insulto razzista proveniente da un suo compagno di squadra nel Benetton e lo ha fatto alla sua maniera, con un placcaggio che non ha lasciato scampo all’avversario.

Racconta Cherif su instagram che durante la consueta cena di squadra per gli auguri di Natale in cui si scambiano piccoli pensieri con la modalità “Secret Santa” (il mittente del regalo è sconosciuto), un suo compagno gli ha regalato due banane marce in un sacchetto dell’umido. Tra l’ilarità di molti suoi compagni di squadra italiani. Cherif, ha placcato subito il compagno razzista denunciando l’accaduto pubblicamente con la speranza che questi episodi non si ripetano più. 

Della vicenda che lo ha coinvolto, ciò che più mi ha colpito è stata questa frase della sua denuncia: «Oltre al fatto di reputare il gesto offensivo, la cosa che mi ha fatto più male è stato vedere la maggior parte dei miei compagni presenti ridere. Come se tutto fosse normale».

Risate. Normale.

È inquietante, lo so ma è così, e il rugby non è il paese delle favole, è inserito in questa società e gli atleti del Benetton in una realtà come Treviso, notoriamente “non troppo aperta” alle differenze culturali.

La vicenda mi ha fatto ritornare alla mente una discussione di qualche giorno fa nella quarta superiore dove lavoro come educatore di un ragazzo con disabilità. In quel caso il tema era l’omosessualità e, in seguito a una battuta di pessimo gusto - eufemismo - la prof si è sentita in dovere di fare una precisazione importante che suonava più o meno così: «attenti a fare queste battute perché potrebbero offendere qualcuno, anche se non ve lo dimostra».

Ne è nata una discussione allucinante in cui i ragazzi sostenevano e rivendicavano il diritto al “black humor” perché tanto si conoscevano tutti e sapevano di non offendere nessuno. Al mio appunto che loro non mi conoscevano bene e avrei potuto essere gay e rimanerci male, qualcuno è arrivato a dirmi che quello era appunto solo black humor, era stata fatta una e una sola battuta che finiva lì e che se io me la fossi presa la colpa era mia che ero troppo sensibile.

Il punto, che si parli di razzismo o di omofobia, a mio avviso è proprio questo: l’incapacità di riconoscere un messaggio razzista o discriminante, sia per i continui messaggi di questo tipo che riceviamo, sia per un’abitudine culturale di cui è permeata la nostra società. Ma la cosa peggiore che ho riscontrato in quella conversazione è stata l’assoluta incapacità o disinteresse di mettersi nei panni dell’altro: ciò che conta non è cosa provocano sugli altri le mie parole, ma ciò che provocano in me che le dico. Per essere più chiari: chissenefrega se ferisco qualcuno, se la mia battuta è bella, fa e mi fa ridere, mi fa diventare figo nel gruppo dei miei simili, ho il diritto di dirla. E il mio diritto di parola prevale sul tuo diritto di non sentirti discriminato. E se qualcuno se la prende son solo cazzi suoi, io non sono razzista (ma)!

La vicenda che ha visto vittima Traoré mi sembra sia incanalata nello stesso binario: nella migliore delle ipotesi, l’ignoto compagno autore del gesto razzista, deve essersi sentito figo per la “genialata” di regalare due banane marce a un compagno con la pelle scura, deve essersi sentito arguto e simpatico, e i suoi compagni che hanno riso altrettanto, dimostrando invece la totale povertà di umanità e di quei valori che si vantano tanto di seguire nel loro sport. 

Nella migliore delle ipotesi. Perché nella peggiore, lui e quei quattro coglioni che ridevano, sono solo dei razzisti di merda!
Nuova Vecchia