Saviano e i desaparecidos di Ayotzinapa


Don Damian è un indigeno mixteco, un signore piccoletto e di età indefinita, che fino al 26 settembre 2014 viveva nella Costa Chica del Guerrero assieme alla moglie e alla figlioletta piccola. È un contadino, lavora nella milpa, fa un mestiere antico e faticoso che ha messo a dura prova il suo fisico.

Da quel tragico giorno di settembre si è trasferito ad Ayotzinapa, il luogo dove vivono le tartarughe, precisamente alla Escuela Normal Rural Raul Isidro Burgos.
L'ho incontrato questa estate nel Viaggio nel Messico Invisibile e desaparecido dell'Associazione Ya Basta! Êdî Bese!, proprio ad Ayotzinapa, dove gli studenti gli hanno ripulito e sistemato un'aula perché potesse stare lì.
Don Damian non ha ripreso a studiare alla sua indefinita età. Don Damian è lì perché il narcoestado messicano gli ha portato via suo figlio Felipe, lo hanno fatto sparire assieme ad altri 42 studenti.
Mi sembra ancora di sentirlo parlare nel suo spagnolo stentato (Don Damian ha imparato lo spagnolo da pochi mesi), mentre ci racconta la sua vita, prima e dopo il 26 settembre (qui la sua storia completa).
Soprattutto mi echeggiano forti nella mente le sue parole dopo un'emozionante silenzio tra un racconto e l'altro: "Felipe ritornerà, è vivo, ne sono sicuro, loro (le istituzioni) sanno dov'è, ma non vogliono dirmelo. Io resterò qui finché non me lo restituiranno vivo."
Ho pensato a questo oggi leggendo Saviano che pontifica su Messico e droghe, che tuitta e rituitta il suo bel pezzo e non si rende conto dell'affronto, della mancanza di rispetto che ha avuto per Don Damian quando afferma che “I mandanti dei killer di Gisela forse sono gli stessi che hanno ucciso i 43 studenti a Iguala..."
Ho pensato a questo oggi e mi è salita forte l'indignazione, ho provato a mettermi nei panni di un genitore che ha visto sottratto cosi un figlio e che si sente dire con freddezza che ora è morto. Ho pensato a Saviano mentre incontra Don Damian e gli espone la sua tesi...
Provi a capire Saviano cosa vuol dire avere un figlio, un parente, un amico, desaparecido. Provi a chiedere a chi ha subito una tragedia simile la sensazione di essere sospeso nel vuoto, il respiro che manca, quell'affanno che non ti permette di ragionare, quel ghiaccio che ti entra nelle ossa e ti paralizza.
Perché chi ha un figlio desaparecido vive in un eterno limbo, un lutto infinito, una situazione d'angoscia per quello che potrebbe succedere in ogni momento al proprio caro.
Provi a capire Saviano che le parole, anche quelle scritte, sono importanti e a volte bisognerebbe avere la capacità di misurarle.
Anche perché al di là di questo particolare aspetto, il pezzo apparso su Repubblica è pieno di inesattezze e superficialità, ben descritte qui da Federico Mastrogiovanni e per le quali non mi dilungo.
Provi a fare un passo indietro, provi a documentarsi, magari tra chi ogni giorno si sporca le mani nel lodo messicano, provi a chiedere scusa a Don Damian e agli altri genitori e compagni dei desaparecidos.
Provi a parlare con i compagni dei desaparecidos, ascoltare la loro tenacia, determinazione, rabbia per cercare ogni giorno giustizia, per cercare ogni giorno di opporsi col proprio corpo al narcoestado assassino.
Provi a scendere nelle calles del Messico ogni 26 del mese da quindici mesi a questa parte, è sicuro che gli passa la voglia di darsi per vinto e accettare la morte e la menzogna di Stato come unica ineluttabile verità.

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