Andrew è un bambino vivace, chiacchierone, curioso e con un sorriso irresistibile. Frequenta la terza elementare in una scuola della terraferma veneziana e ha l’insegnante di sostegno e l’operatore all’inclusione al suo fianco in classe nonostante, a prima vista, non presenti disabilità fisiche o intellettive evidenti. Lo conosco una mattina di inizio primavera sostituendo una collega ammalata. Così, anche per modulare al meglio il mio intervento educativo, durante la ricreazione chiedo alla maestra di classe di raccontarmi un po’ di lui, della sua storia. Una richiesta la mia che spalanca le porte su un mondo degli orrori.
Andrew - nome di fantasia - è arrivato qui non da molto tempo. La maestra mi racconta che al suo arrivo in questa scuola non parlava, nel senso che proprio non apriva bocca, non che non sapesse l’italiano. Inoltre, non riusciva a tenere in mano una penna o una matita, non riusciva proprio a stringerla tra le mani e aveva gravissimi problemi comportamentali con frequenti scatti di ira, frustrazione di fronte ai no, fughe improvvise e incapacità di rispettare le regole.
Una situazione molto grave che, ho immaginato, fosse dovuta a una situazione familiare difficile, ma la maestra, continuando a parlare, mi racconta altro: Andrew da piccolino è stato prigioniero nei lager libici, ha visto violenze di ogni genere subite dai suoi genitori e dagli altri reclusi ingiustamente in quei luoghi di orrore che lo Stato italiano finanzia senza alcuna pietà per difendere quelle linee immaginarie che chiamiamo confini. Lui stesso ha subito violenze, continua a raccontare la maestra: lo hanno preso a calci, tenuto a lungo senza mangiare e legato per le mani e forse è per questo che ci ha messo tanto a imparare ad aprire le mani e a stringere una penna. Poi un giorno un soldato, infastidito di sentirlo piangerle disperato, gli ha spaccato i denti col calcio del fucile per farlo stare zitto.
Andrew ha negli occhi cicatrici così profonde che difficilmente spariranno, nonostante fosse davvero tanto piccolo quando subì tutto questo e la memoria “cosciente” abbia probabilmente chiuso a chiave dentro un cassetto gli orrori e le violenze viste e subite. Andrew ha cicatrici che probabilmente di notte vengono a fargli visita, a turbare il suo sonno e la sua stessa vita, a toglierli quel sorriso irresistibile, a farlo piangere disperato e annaspare nell’inquietudine del buio.
Non so come sia arrivato fin qui, Andrew. Posso solo immaginare che la forza, la determinazione e l’amore dei genitori sia stata superiore alla crudeltà dei carcerieri libici e dei loro complici politici qui in Italia. Che sia stata superiore alla paura di non farcela, di finire arrestati e deportati nuovamente, di finire tragicamente in fondo al mare. Come capita a tanti, troppi, in questi tempi bui. Andrew oggi è qui e ha il sostegno che è giusto che abbia. Anzi, è, e lo sarà sempre, in credito con il nostro Paese che finanzia i suoi torturatori criminali.
Andrew ci sta provando a voltare pagina, a dimenticare, a crescere. Lo capisci quando lo guardi giocare felice e spensierato o quando si impegna sudando sette camicie per impugnare bene quella dannata penna che scivola sempre via e ricopiare a fatica il testo scritto dalla maestra alla lavagna. Ma poi vedi anche il mostro ritornare, quando non è capace di star fermo, quando cerca disperatamente di muoversi, di correre, di scappare, di togliersi quel laccio che l’opprime. Quando si blocca e si perde nei suoi pensieri, anche solo per un attimo.
Andrew oggi gioca felice coi suoi compagni della scuola elementare dove è ben inserito e ben voluto da tutte e tutti. Prima di finire la mia sostituzione lo guardo un’ultima volta mentre gioca a rincorrersi coi suoi compagni che vengono da Marghera ma anche dalla Cina, dal Bangladesh, dalla Romania e dalla Moldavia. Guardo lui e i suoi compagni giocare e divertirsi in quel giardino dove non esistono confini a dividerli, a fargli violenza, a ostacolare la loro felicità.
E penso che quella violenza, quegli orrori, quella disumanità che Andrew ha vissuto e subito ingiustamente, alla fine, giorno dopo giorno, stanno venendo sconfitti, sgretolati e curati da quei giochi, da quei sorrisi, da quegli abbracci, da quei bambini che corrono insieme verso il futuro.
Tratto da una storia vera.
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