Della crisi del sistema capitalista e delle sue drammatiche conseguenze ormai non se ne fa mistero: le guerre, i cambiamenti climatici sempre più visibili, gli eventi atmosferici sempre più frequenti e radicali, l’inquinamento, lo sfruttamento e la devastazione dei territori, la cesoia sui diritti della popolazione, le disuguaglianze in costante crescita, sono solo alcuni degli “effetti collaterali” che il capitalismo porta con sé e che, anche grazie alla pandemia, sono arrivati prepotentemente agli occhi di tutti in questi ultimi due anni.
Tutto ciò appare ai più probabilmente come un destino ineluttabile, un futuro verso il quale non possiamo che andare incontro perché il nostro presente è immutabile e i cambiamenti, quelli della nostra società indispensabili per invertire la rotta, inapplicabili. Si, inapplicabili, perché al centro del nostro vivere c’è la sacralità del profitto, del mercato, della proprietà privata, della favola della crescita infinita.
Ciò di cui invece si dibatte poco è che esiste un mondo altro che non è nei sogni, nelle utopie, nei progetti di chi sogna un nuovo mondo. No, è nelle pratiche di popolazioni ancestrali dove esiste un modello di società, di organizzazione sociale, che si pone «fuori dalle relazioni di mercato». È il modello comunitario indigeno che, con le naturali trasformazioni dovute agli eventi endogeni ed esogeni, da cinquecento anni resiste al colonialismo e alla dominazione occidentale. Quindi al capitalismo, al quale si contrappone.
“Economia comunitaria indigena” di Andrea Mazzocco, è un bellissimo tuffo in questa “realtà parallela”, sconosciuta ai più. Il lettore si trova catapultato alla vera e propria scoperta di un mondo altro dove al centro delle relazioni sociali c’è la comunità e il suo benessere, il noi collettivo, e non il mercato, la proprietà privata, l’io individualista. Dove c’è la partecipazione attiva della popolazione nelle decisioni collettive che riguardano la comunità di appartenenza e non il deleterio meccanismo della delega e della rappresentanza vigente nel sistema capitalista, che allontana i cittadini dalla cura del bene comune. Un mondo e un modello di società spesso considerato retrogrado, arretrato e anche conservatore ma che in realtà, oggi come oggi, è un modello potenzialmente rivoluzionario e, come afferma il filosofo statunitense Noam Chomsky, l’unica forza che sta “prevenendo il disastro” ambientale al quale stiamo andando incontro inesorabilmente come umanità.
Il libro ci porta a conoscere il modello economico comunitario indigeno partendo da due elementi fondamentali, la comunità e la terra. A partire da questi due elementi centrali, si sviluppa un modello di società il cui obiettivo primario è il benessere della comunità stessa, che viene articolato mediante la costruzione dell’autonomia e l’attuazione di pratiche e decisioni quotidiane prese in collettivo e per il collettivo stesso. Pagina dopo pagina il lettore scopre parole desuete non solo nel dizionario ma anche nei comportamenti che siamo soliti vivere nella nostra società: reciprocità, complementarietà, redistribuzione per le popolazioni indigene, sono perni irrinunciabili sui quali è fondata l’organizzazione comunitaria indigena.
Il confronto che ne esce con l’organizzazione economica e sociale capitalista è impietoso e mostra inoltre una difficile coesistenza dei due modelli per via della natura stessa del neoliberismo che mira all’egemonia. Il capitalismo non solo saccheggia le risorse, “ruba” le terre, toglie i diritti e opprime le persone ma purtroppo seduce e corrompe le comunità indigene. Seduce tramite il consumismo e corrompe attraverso la spoliazione delle risorse e dei mezzi di sussistenza, fondamentali nel modello comunitario, costringendole poi ad abbandonare il proprio modello di organizzazione sociale per sopravvivere, a stento, in quello capitalista.
Una di queste esperienze comunitarie più interessanti è sicuramente quella degli indigeni zapatisti del Chiapas. Andrea ci porta così alla scoperta, attraverso il lavoro svolto sul campo visitando e vivendo le stesse comunità zapatiste, di questa organizzazione collettiva che in più di trent’anni di rebeldía ha saputo costruire/ricostruire un modello comunitario basato sulle tradizioni ma anche capace di aprirsi alle novità affrontando e superando i propri limiti culturali e consuetudinari. Ma non ci sono solo gli zapatisti. Nel libro ci sono anche le esperienze nelle comunità indigene andine dove, per esempio, le nazioni Awajun e Wampis hanno saputo difendere il proprio modello economico e sociale e a farsi addirittura riconoscere dallo stato peruviano un proprio “governo territoriale autonomo”.
Il volume, coniuga gli studi con l’esperienza vissuta in prima persona dall’autore ed è proprio il lavoro sul campo a dare al testo un valore aggiunto. Infatti, come afferma lo stesso Andrea nelle conclusioni, il problema principale nella comprensione di questo fenomeno è stato «mettersi nei panni dell’altro»: capire la complessità del mondo indigeno è il primo passo per approcciarsi in maniera non paternalistica e quindi non colonialista, non capitalista. E Andrea, grazie ai suoi viaggi e all’umiltà di chi vuole conoscere, capire e rispettare ci riesce perfettamente lasciando al termine della lettura suggestioni importanti: se è vero che il modello comunitario indigeno è irriproducibile in società molto più popolose e articolate, è anche vero che questo non ci esime dalla responsabilità di cercare nuove vie e nuove pratiche nella costruzione di un mondo diverso: organizzazione, autonomia, comunità, territorio, non sono solo parole, possono essere i punti chiave sui quali basare il nostro agire sia politico, sia individuale.
Parole che abbiamo sentito anche dalle compagne e dai compagni zapatisti, che con un immenso sforzo organizzativo l’autunno scorso hanno intrapreso la “gira por la vida” nei nostri territori, con l’obiettivo di unire le resistenze e invitare a non abbandonare la lotta, ad unire gli sforzi. Perché, oggi più che mai, c’è bisogno di alternative concrete per evitare la catastrofe nella quale il capitalismo ci sta facendo sprofondare.
** Pic Credit: Marco Dellino
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