La distanza della didattica dai bambini


Sono passati poco più di tre mesi da quando hanno chiuso le scuole in Veneto. Ricordo bene quel periodo, i primi casi di Vò Euganeo, le polemiche sul fastoso Carnevale di Brugnaro che proseguiva nonostante il virus perché “i schei xe schei”, i dubbi e le perplessità, le paure e le sdrammatizzazioni, l’ostinata voglia di normalità incapace di arrendersi di fronte all’evolversi degli eventi. Ricordo bene anche il lunedì in cui chiusero le scuole. Era il 24 febbraio e nessuno quel giorno avrebbe potuto immaginare che non sarebbero più state riaperte. 

Eppure, dopo oltre tre mesi, dopo una devastante pandemia che ha sconvolto il mondo come lo conoscevamo, dopo oltre 33 mila vittime in Italia e 400 mila nel mondo, dopo la grande paura, dopo l’annichilimento di quel che resta dei diritti e del senso di comunità grazie al “distanziamento sociale” - invece che fisico - e alle misure economiche successive, tutto lentamente ricomincia. O per meglio dire, ricomincia tutto quello che era stato fermato – che era ben poca cosa rispetto a ciò che andava fermato – e che farà ripartire l’economia, unica priorità di questo e di tutti i governi colpiti dalla pandemia. Visti i dati drammatici, sarebbe da tirare un sospiro di sollievo se non fosse che nell’euforia della ripartenza abbiamo lasciato “qualche pezzo” indietro, ad esempio, il problema della riapertura delle scuole.

In questi mesi di didattica a distanza abbiamo visto che le cose non hanno funzionato come avrebbero dovuto. Non solo, nonostante tutti i limiti venuti alla luce e nonostante sia uno strumento emergenziale limitato che non può sostituire la didattica in presenza, più volte purtroppo è stato accostato ad ipotesi di possibili futuri percorsi formativi ed educativi. A titolo esemplificativo, un’inchiesta del Coordinamento Studenti Medi Venezia-Mestre su un campione di quasi 1600 studenti ha evidenziato come il 52% degli intervistati ritiene che la didattica a distanza nella propria classe, abbia amplificato le disuguaglianze sociali, economiche e culturali. Tra i vari problemi riscontrati in questi mesi c’è poi una innaturale disparità di trattamento e di possibilità a seconda delle scuole e delle classi. Insomma, come denunciato dallo stesso Coordinamento «gli studenti e le studentesse si sono trovati a doversi confrontare con questo nuovo metodo che minaccia il vero ruolo delle scuole, che dovrebbero appianare le differenze dare a tutti le stesse opportunità formative, mentre la didattica a distanza accentua le differenze all’interno delle classi e tra le scuole stesse». 

Anche gli studenti universitari hanno sperimentato questo nuovo modello di istruzione, un modello che ha accentuato la metamorfosi della formazione da strumento di crescita umana a merce. A questo e alla chiusura di tutte le biblioteche e delle sedi universitarie, gli studenti universitari hanno risposto organizzando auto-formazioni online e momenti di discussione collettiva. Secondo il Collettivo universitario Lisc «le lezioni online hanno duramente plasmato la natura di una formazione già corrosa da quella smania di concludere il percorso di studi il più velocemente possibile, una smania sicuramente figlia dell’impronta neoliberale che l’Università ha perfettamente perseguito negli ultimi anni. Lezioni frontali, mal gestite, totalmente prive di discussione e analisi critica sono state – e sono – all’ordine del giorno».

Se all’università e nelle scuole di secondo grado le cose non vanno bene, abbiamo la possibilità di saperlo, grazie al pensiero critico di molti studenti, che si sono attivati per porre all’attenzione generale difficoltà, limiti e squilibri del nuovo sistema. Purtroppo però non per tutti i gradi dell’istruzione pubblica c’è possibilità di avere un’analisi critica sulle problematiche che rappresenti il punto di vista di chi vive la situazione sulla propria pelle. Il silenzio che circonda l’ambiente è rotto ogni tanto solo da qualche notizia sconcertante: come quella della maestra di una scuola dell’infanzia di Prato che in maniera del tutto volontaria ha deciso, terminata la quarantena, di ritrovarsi coi suoi allievi in un parco, a distanza di sicurezza e coi genitori presenti, per leggere loro delle fiabe. Un momento di umanità che ha scatenato le critiche del segretario generale del settore scuola della Cisl di Firenze e Prato perché – cita il giornale La Nazione - «secondo lui si potrebbe pensare che le altre maestre siano meno volenterose». Di fronte al silenzio, al disinteresse istituzionale e a prese di posizione come quella citata sopra, come genitore di un bambino frequentante la scuola dell’infanzia e anche come rappresentante di sezione, credo sia giusto prendere posizione, documentare ciò che sta avvenendo in questi mesi di chiusura delle scuole, cercando di dare voce anche a chi voce non ne ha.

Tra i tanti “dimenticati” ci sono infatti proprio i bimbi più piccoli, quelli che frequentano la scuola d’infanzia, quelli per cui secondo il ministero dell’Istruzione non è obbligatorio attivare la didattica a distanza, anche se è pur vero che lo stesso MIUR ha pubblicato nelle FAQ, delle linee guida che esortano a mantenere la relazione coi bambini: «Nel caso dei bambini più piccoli per i quali le attività educative si realizzano attraverso momenti di cura, di relazione, di apprendimento, di esplorazione e gioco, la didattica a distanza potrà essere organizzata attraverso semplici forme di contatto a distanza. Si raccomanda, ad esempio, di favorire, con le modalità ritenute più opportune, la relazione educativa con i bambini e di fornire alle famiglie suggerimenti e indicazioni sulle possibili attività da svolgere nel periodo di sospensione». 

Linee guida che sicuramente hanno contribuito a far funzionare le scuole dell’infanzia a due velocità, mettendo in evidenza da un lato la buona volontà di mettersi alla prova con gli strumenti tecnologici necessari e dall’altro le reticenze e l’incapacità di adattamento alle nuove modalità. Far finta non ci siano state queste differenze è fare un torto ai bambini stessi, che in prima persona hanno subito le conseguenze del disinteresse e della confusione. 

Tutta questa confusione generata dalle direttive ministeriali inoltre ha fatto perdere di vista la cosa più importante: per bambine e bambini così piccoli ciò che è veramente mancato non sono le piccole attività proposte dalle maestre, quanto la loro voce, i loro sorrisi, i loro abbracci. Sono mancati i compagni e le compagne di gioco che da un momento all’altro sono spariti dalla loro vista e dalla loro vita. È quanto affermano anche i pediatri in una lettera pubblicata su Il Manifesto: fin dal principio la preoccupazione è stata quanto i bambini potessero ammalarsi e quanto potessero essere fonte di contagio, ma ci siamo dimenticati di preoccuparci delle ricadute psicologiche e sociali prodotte dal troppo lungo distanziamento sociale. Per questo, sostengono i pediatri, «è quindi urgente cambiare rotta, se si vuole evitare che alla crisi sanitaria e a quella economica si aggiunga una crisi educativa e sociale dalle conseguenze pesanti per tutti i bambini, e drammatiche per una consistente minoranza, che già in precedenza viveva situazioni di difficoltà di apprendimento».

In tante, troppe, scuole c’è voluto quasi un mese prima che le maestre riuscissero ad organizzarsi e a proporre le prime attività ai loro allievi. Non solo, ma in molti casi, a mettere i bastoni tra le ruote ci si è messa l’impreparazione tecnologica di maestre e famiglie e naturalmente la burocrazia, che non ha certo facilitato la risoluzione, ad esempio, dei problemi legati alla privacy e alla condivisione di informazioni personali, come il semplice scambio di mail, tra genitori e insegnanti. 

Se sembra comunque poca cosa rispetto a tutti i problemi affrontati per esempio dai maturandi, consiglio di fare come ho fatto io e di parlare coi genitori di bambini dai tre ai cinque anni. Il quadro è preoccupante: dopo così tanto tempo molti bambini hanno smesso di chiedere ai genitori quando finirà il coronavirus e sarà possibile tornare a scuola; altri non ne vogliono proprio parlare o cambiano discorso, altri ancora piangono o rispondono esternando rabbia verso tutto ciò che è inerente alla scuola o ancora si rifiutano di salutare gli amichetti preferiti. I genitori, ognuno con le proprie specificità e capacità, possono affrontare questo assieme ai propri figli ma resta comunque un problema riuscire a dare sicurezze quando in realtà non ci sono certezze sul futuro, sulla riapertura e sulle modalità.

In molte scuole dell’infanzia inoltre, le maestre hanno dovuto affrontare anche un altro ostacolo: la quasi totalità degli allievi ha origini straniere, per questo dai racconti di alcuni genitori, alcune Dirigenti hanno preferito dare priorità a quegli allievi che l’anno prossimo passeranno alla scuola primaria attivando percorsi di continuità educativa individuali. Una scelta condivisibile per sostenere quei bambini per i quali la lunga “reclusione” in famiglie in cui raramente si parla italiano, potrebbe significare, all’ingresso alla primaria, l’acuirsi delle difficoltà linguistiche. Una scelta che però, sempre a detta dei genitori, ha sottratto tempo e risorse agli altri allievi per i quali, a fine maggio ancora non è stato possibile attivare momenti di confronto dal vivo. 

A fine maggio ho partecipato alla riunione virtuale di intersezione con maestre e rappresentanti di classe in cui le maestre hanno comunicato che, per “disposizioni dall’alto” solo per i bambini di cinque anni è stato previsto un momento di saluto nel giardino della scuola a giugno. Per tutti gli altri ci si vede a settembre, senza saluti finali, senza lavoretti senza nient’altro che una fredda comunicazione ufficiale. Un po’ amareggiato ho deciso di intervenire. Il discorso è filato più o meno così: «siamo tutti consci della portata storica degli eventi che stiamo vivendo, ma anche di tutti i limiti e degli errori commessi, come il fatto che riapre tutto, che ci possiamo assembrare nei bar, nei supermercati, nei negozi, nei mezzi pubblici o nelle fabbriche, ma non si riesce nemmeno a fare un saluto dal vivo nelle scuole, a distanza di sicurezza, con le mascherine e i genitori presenti. No, quello è pericoloso! Però, care maestre, credo di dire una banale verità affermando che ai bimbi è mancato il contatto con voi e i compagni, molti bimbi hanno praticamente cancellato ogni riferimento alla scuola, non ne vogliono nemmeno parlare. Quindi sarebbe importante, oltre che bello, riuscire a vedersi virtualmente se non una volta a settimana fino alla fine della scuola, almeno un’ultima volta per i saluti di fine anno. I bambini hanno bisogno di sapere che ci siete, di vedervi, di sentire la vostra voce e di vedere il vostro sorriso, di riabituarsi a voi».

Il discorso - che dal vivo è stato molto più bello ed enfatico -, ha suscitato molti dubbi tra le maestre, (che pure ne hanno apprezzato il contenuto) perché, ancora una volta, ha portato all’attenzione la dicotomia tra la buona volontà da un lato e gli ostacoli burocratici e tecnologici dall’altro. Da parte mia, ho dato fondo a tutto il romanticismo possibile cercando di ribadire l’importanza di una possibile ripresa delle interazioni sociali, seppure mediate dalla tecnologia, anche a costo di superare ostacoli burocratici e non, offrendo anche il supporto e l’appoggio dei genitori in questo passaggio. Ma l’amaro in bocca rimane perché mi sembra ancora impossibile che in questi mesi sia stato possibile derogare a qualsiasi regola costituzionale o economica e non sia stato possibile invece riuscire a rispondere ai bisogni fondamentali di questi bimbi, che da oltre tre mesi hanno visto sconvolto la loro routine senza che importasse a nessuno, senza che ci fosse un’unione di forze pronte a superare gli ostacoli e anzi sollevando problemi che hanno acuito quel distanziamento sociale tanto decantato e auspicato dalle autorità durante la crisi.

Per fortuna, sempre di più sta crescendo la consapevolezza che questo prolungato distanziamento sociale e l’assenza di percorsi educativi, sociali e ludici sta diventando un problema che necessita una pronta risposta. Alla pari di questa consapevolezza, stanno crescendo quindi anche le iniziative spontanee, volontarie e “clandestine” di molti educatori che, sull’esempio della maestra toscana, hanno deciso che era il momento di porre rimedio alle mancanze e al disinteresse della politica. Sono piccole crepe nel muro di ostacoli, reticenze e distanziamento sociale che lentamente vengono aperte perché, se la didattica si è fatta distante, fortunatamente l’umanità no, ha resistito alla “tormenta”. Umanità che non si arrende ed è pronta a ripartire, a ricostruire sulle macerie prodotte da questa emergenza e da questo sistema, a ricominciare a prendersi cura davvero di chi non ha né voce né forza per far valere i propri diritti e i propri bisogni.

Tratto da Globalproject
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