«L'avete sentito? È il rumore del vostro mondo che si sta distruggendo. E il nostro che sta risorgendo. Il giorno che è stato il giorno, era notte. E notte sarà il giorno che sarà giorno. Democrazia! Libertà! Giustizia!»
Ejercito Zapatista de Liberación Nacional
Il pianeta sta bruciando, i ghiacci eterni si sciolgono, il cambiamento climatico provoca danni incalcolabili ad ogni “goccia” di pioggia, i territori sono dissanguati dallo sfruttamento intensivo di qualsiasi cosa possa prevedere uno sfruttamento economico, uomini e donne sono costretti alla miseria da contrazione e negazione dei diritti e dallo sfruttamento del lavoro, i difensori dell’ambiente e dei diritti umani sono ammazzati nell’impunità. Tutto questo mentre là in alto, quel maledetto 1%, continua ad arricchirsi a dismisura aumentando le ingiustizie e le disuguaglianze. È il capitalismo estrattivista nella sua fase di crisi acuta, che per continuare a produrre accumulo di ricchezza deve distruggere la vita.
Dall’autunno caldo latinoamericano però giungono potenti gli echi delle profonde trasformazioni in atto, delle ferite provocate dalla repressione assassina dei governi, ma soprattutto della resistenza di uomini e donne, anziani e bambini che con il proprio corpo si oppongono al sistema e costruiscono speranza e alternative per tutte e tutti. In questo caos dove siamo “costretti” a prendere posizione contro l’aggressione delle ultra destre ai diritti e ai territori, dobbiamo però stare attenti a come affrontiamo gli eventi in corso, perché il rischio è quello di perderci nelle faide dei los de arriba per disputarsi quel che resta del Palazzo che si sta distruggendo…
Gli zapatisti avevano preannunciato l’arrivo della “quarta guerra mondiale”, una fase contraddistinta dall’attacco sistematico alla Vita, portato avanti con politiche economiche estrattiviste e con la militarizzazione crescente della società, con tutte le conseguenze drammatiche che questo comporta. A questa aggressione costante e violenta del sistema capitalista, si è contrapposto in questi ultimi mesi uno sciame di rivolte popolari, che si è propagato nella regione latinoamericana dimostrando che c’è ancora speranza di creare alternative al lento declino sociale, economico e politico che il sistema vorrebbe imporre.
Già da mesi ad Haiti la popolazione scende nelle piazze per protestare e chiedere le dimissioni del presidente Moisé, accusato di corruzione e responsabile della crisi economica da cui il paese non riesce ad uscire e che costringe a vivere nella povertà gran parte della popolazione stessa. Ma è con la rivolta contro il paquetazo economico di Lenín Moreno in Ecuador che si è cominciato a capire che qualcosa di importante stava scuotendo l’intero continente. Nel giro di due settimane infatti, il presidente ecuadoriano è stato costretto a una parziale marcia indietro dopo la più grande mobilitazione del paese guidata dalle organizzazioni indigene con in testa la CONAIE. A macchia d’olio, la rivolta ha investito il Cile, sull’onda delle proteste studentesche contro il rialzo del prezzo dei trasporti pubblici di Santiago: l’evasion masiva è diventata ben presto il pretesto per far emergere la mancanza di democrazia nel paese, tutt’ora ancorato a una costituzione promossa dal dittatore Pinochet. La ola rebelde si è poi propagata fino alla Colombia dove, alle solite misure drastiche in materia economica da parte di un governo, storicamente vassallo degli Stati Uniti, si deve aggiungere la questione mai risolta della pacificazione, del paramilitarismo e dell’assassinio sistematico di leader indigeni, soprattutto nel Cauca, ripresi con vigore con il nuovo governo di Duque, che ha disatteso le politiche di pacificazione del governo precedente.
Nel mezzo di queste rivolte, si sono inseriti quattro importanti eventi elettorali: la vittoria di Alberto Fernandez in Argentina, quello dell’attivista femminista Claudia Lopez a sindaco di Bogotá, la riconferma di Evo Morales in Bolivia e la vittoria al ballottaggio della destra in Uruguay dopo quindici anni di governi progressisti. Le vittorie “progressiste” in Argentina, Bolivia e a Bogotá, unite alla soddisfazione per la liberazione di Lula, finalmente, dall’ingiusta detenzione, hanno rilanciato l’idea di una rinascita del progressismo latinoamericano dopo il periodo buio che aveva contraddistinto le affermazioni di Macri in Argentina, Piñera in Cile e soprattutto Bolsonaro in Brasile. Una tesi spazzata via da una parte dalla potente rivolta popolare seguita dal golpe revanchista delle destre contro Evo Morales in Bolivia e dall’affermazione di un soffio al ballottaggio di Lacalle Pau in Uruguay e dall’altra dalle condizioni politiche ed economiche completamente differenti rispetto al precedente ciclo politico che ne aveva permesso l’espansione. Secondo Raúl Zibechi, infatti, «il ciclo progressista è finito, anche se ci sono ancora governi che reclamano questa corrente. Il progressismo è stato un ciclo di prezzi elevato delle materie prime, che ha permesso di tramandare i ricavi delle eccedenze commerciali ai settori popolari» [1]. Centrale per questo ragionamento è come ci vogliamo approcciare ai recenti eventi che hanno coinvolto la Bolivia di Evo Morales, diventata un simbolo, intoccabile, per le sinistre mondiali. La critica al MAS e a Morales ci sembra essenziale per comprendere appieno la fase storica in corso.
In America Latina si è affermata in questi mesi una fase di conflitto sociale molto elevata e di instabilità politica, che si protrarrà ancora a lungo, dove il problema non è il modello politico che ha assunto il potere ma il sistema stesso e le gravi conseguenze che porta nella vita delle persone: come già detto, contrazione dei diritti, devastazioni dei territori, condizioni di sfruttamento sul lavoro sono tutte cause delle rivolte di questo periodo e non hanno colore politico. Il modello boliviano è stato un esperimento governativo che indubbiamente ha avuto degli importanti meriti nel rendere visibile la questione indigena ma con il tempo ha subito una metamorfosi e una involuzione molto preoccupante. Non si può infatti nascondere o minimizzare l’accordo del MAS con gli imprenditori e i partiti politici di destra, che ora accusano del golpe, attraverso concessioni economiche e normative, con le autorizzazioni alla coltivazione di mais, cotone e canna da zucchero transgenici, con la regolarizzazione dei disboscamenti autorizzati o con gli accordi con la Cina per l’esportazione di carne ampliando la frontiera agricola e zootecnica come avvenuto questa estate con gli incendi nella Chiquitania. Ma non c’è solo l’aggravarsi dell’estrattivismo: altrettanto importante è segnalare il verticismo dell’organizzazione, la divisione, cooptazione e occupazione dei movimenti critici o la loro successiva repressione e criminalizzazione nelle contestazioni a questo modello; in definitiva, smembramento della base e dell’organizzazione sociale che ne aveva permesso la scalata al potere. Per ultimo, la questione elezioni: dall’ormai famoso referendum del 21 febbraio 2016, alla gestione del risultato elettorale e alla successiva protesta, l’unico interesse del MAS è stato quello di difendere la propria posizione, operando «come una forza politica che ha generato le condizioni perché si potessero ricomporre le strutture di dominazione» [2]. Tutto questo non si può far finta di non vederlo, non si può nemmeno minimizzarlo con lo spauracchio del ritorno delle destre fasciste e militariste al potere, tanto meno derubricarlo a opposizione di destra o a favore delle stesse destre. Accusare chi denuncia queste criticità di fare il gioco delle destre genocide a mio avviso vuol dire legittimare un sistema di sfruttamento, forse più umanizzato, ma comunque un sistema di sfruttamento.
È importante quindi non cadere nella trappola della polarizzazione, per due motivi, uno correlato all’altro. Il primo motivo è che rende invisibili tutti quei movimenti, collettivi, organizzazioni e singoli che desde abajo lottano per costruire un’alternativa concreta al sistema capitalista. La seconda è che l’invisibilità di questi movimenti porta a far pensare che l’unica alternativa alla sciagura del neoliberismo, condita oggi dal fascismo e dal militarismo crescente, sia da ricercarsi in queste esperienze progressiste, desde arriba, che altro non sono se non versioni edulcorate del capitalismo. Vale a dire, la polarizzazione è utile allo stesso sistema per perpetuarsi e silenziare le voci del dissenso.
Come già detto in apertura, abbiamo di fronte la crisi del sistema capitalista. Ad essere in crisi sono i governi neoliberisti, impossibilitati a governare senza ricorrere a misure economiche talmente drastiche da far scatenare enormi mobilitazioni, che portano necessariamente a repressioni violente perché, come scrive il giornalista messicano Hermann Bellinghausen, «nella attuale fase di brutalità capitalista [i poteri planetari] hanno assunto il costo della violenza istituzionale, del terrorismo di stato, della repressione, del carcere, della tortura e dell’assassinio» [3]. Ad essere in crisi però è anche il modello progressista. L’uscita di scena di Morales tra i tumulti popolari e la rivincita delle destre, ci dice che questo modello non è stato in grado di sconfiggere culturalmente il modello predominante ma anzi ne è stato inesorabilmente assoggettato, usato e alla fine gettato nella spazzatura alla prima occasione utile. Per non parlare sempre e solo di Bolivia, un altro esempio molto illuminante del progressismo “venduto” al capitalismo è quello di López Obrador in Messico, che si sta disimpegnando in politiche estrattiviste aggressive né più né meno di quelle dei governi precedenti e in politiche migratorie completamente assoggettate al volere degli Stati Uniti. Il progressismo dunque non solo è la versione edulcorata del neoliberismo, ma ci fa anche credere che per la salvezza e il benessere di molti è necessario sacrificare qualcosa (i territori) o qualcuno (i migranti o gli indigeni).
Il problema di fondo segnalato già da diversi anni da Zibechi è la perdita di etica delle sinistre latinoamericane e mondiali, che si fanno corrompere dal sistema e che per rimanere al potere abiurano senza rimorso ai valori e alle promesse fatte ai los de abajo, cosa che ha causato la perdita di consensi e soprattutto la perdita di persone disposte a difenderle a tutti i costi dagli attacchi delle ultradestre, come successo a Lula e Dilma in Brasile e ora a Morales in Bolivia. Per una parte di sinistra ideologica ammettere tutto questo e attaccare Evo o Lula per gli enormi errori commessi, è inaccettabile perché significherebbe dover fare i conti con il fallimento di un progetto politico, con il tradimento dei suoi leader più carismatici e con un orizzonte politico istituzionale vuoto.
A fronte di questo quadro drammatico, abbiamo visto nelle ultime settimane confortanti segnali di resistenza e ribellione provenire dalle piazze in rivolta. Se là in alto i los de arriba si azzuffano per il controllo dei loro palazzi decadenti, in basso si muovono soggettività che cercano di farsi spazio in mezzo alla repressione. Solo per fare due esempi, da mesi gli indigeni del sud del Perù stanno resistendo contro il progetto minerario “Tía Maria” nel silenzio generale. Pochi giorni prima della sollevazione ecuadoriana, il Movimientos de Mujeres Indigenas por el Buen Vivir ha occupato per dieci giorni il ministero dell’interno argentino per protestare contro quello che hanno chiamato “terricidio” [4]. In pochi ci hanno fatto caso ma la presenza dei movimenti indigeni nelle proteste autunnali è stata uno dei cardini delle rivolte. Simbolica è l’immagine della bandiera mapuche che sventola da Plaza de la Dignidad a Santiago, ma non dobbiamo dimenticare il ruolo determinante che ha avuto per esempio la CONAIE nella rivolta in Ecuador o ancora, precedentemente, la lunga minga indigena delle popolazioni del Cauca, in Colombia, senza dimenticare la fondamentale esperienza autonomista degli indigeni zapatisti in Chiapas, che proprio sul finire dell’estate ha dato un’ulteriore accelerazione con la creazione di nuovi territori ribelli autonomi. Sempre Zibechi, ci segnala come lo stile di vita indigeno sia oggi quello più assimilabile a uno stile di vita anticapitalista per via del profondo legame e rispetto che queste popolazioni hanno con i territori in cui vivono. Detto dell’accusa di “terricidio” lanciata dal Movimientos de Mujeres Indigenas por el Buen Vivir al vecchio governo argentino, significativo è stato il messaggio della nazione Qhara Qhara a Evo Morales pochi giorni prima della sua rinuncia: «Signor Presidente, dal profondo del nostro cuore e con grande rammarico ti diciamo, dove ti sei perso? Perché non vivi dentro i nostri precetti ancestrali che dicono di rispettare i cicli? Perché hai prostituito la nostra Pacha Mama?».
Con i movimenti indigeni, i grandi protagonisti autunnali delle piazze in rivolta sono stati i movimenti studentesco e femminista. Gli studenti cileni, con una lunga tradizione di ribellione, sono riusciti a “risvegliare” la popolazione cilena e il motto “no son 30 pesos, son 30 años” spiega molto bene e sinteticamente come sono riusciti a far diventare una rivendicazione di settore – l’aumento del biglietto della metro – una rivendicazione generale sui trent’anni di politiche neoliberiste del dopo dittatura attuate tanto da governi dichiaratamente neoliberisti quanto da quelli progressisti nei rispettivi periodi di potere. Allo stesso modo, il movimento femminista è riuscito a far passare il messaggio di critica al patriarcato in queste dinamiche di piazza: dalle manifestazioni in prima linea delle mujeres indigenas in Ecuador, al flash mob contro la violenza sulle donne a Santiago del Cile diventato virale in questi giorni, per finire coi “parlamento de mujeres” organizzati dalle femministe boliviane nel corso della crisi, hanno messo l’accento sul problema di fondo: il patriarcato, strumento primario di dominazione e controllo, senza il quale il capitalismo non potrebbe riprodursi. Proprio dai parlamenti delle donne boliviane è giunta una prima importante suggestione sulla necessità di superare le faide dei los de arriba: «La logica del “uno contro l’altro” e del “se non sei con me sei contro di me”, è la logica della “pelea de gallos” che storicamente governa questo paese», ha dichiarato l’attivista femminista Maria Galindo subito dopo le elezioni, mettendo in guardia sul pericolo di far piombare il paese nel baratro della guerra civile. Sempre secondo Maria Galindo, «i conflitti in Bolivia, Perù, Ecuador e Cile mostrano, con sfaccettature e contesti diversi, la crisi della democrazia liberale rappresentativa e la privatizzazione della politica» [5].
A questa crisi della democrazia le piazze latinoamericane hanno cominciato a provare a dare una risposta che andasse oltre la giusta e necessaria contestazione. Dall’Ecuador al Cile, dalla Bolivia alla Colombia, durante queste settimane di contestazione è stato un fiorire di assemblee popolari, di cabildos, di assemblee nei barrios, con l’obiettivo non solo di organizzare la resistenza alla repressione militare, ma anche quella di cercare le risposte alla crisi, di costruire le rivendicazioni politiche della lotta. L’eccessiva spontaneità di queste rivolte infatti è stata uno dei limiti più grandi, tanto che, per esempio, solo in Bolivia ha portato alla caduta del presidente, cioè dove le destre hanno saputo cavalcare e capitalizzare politicamente la protesta popolare.
Come sostiene la sociologa Maristella Svampa, «il panorama è molto complicato perché c’è un movimento di placche tettoniche sociali in qualche direzione, ma ancora non sappiamo verso dove» [6]. Quello che sappiamo è che la polarizzazione, la lotta tra galli, la militarizzazione e la repressione, ci stanno costringendo alla paura perché «la paura serve per mobilitare ed esacerbare la popolazione, facilitando la consegna del potere cittadino ai caudillos» [7]. Quello che sappiamo è anche da che parte stare. Mentre in molti si affannano a difendere con le unghie regimi politici che come abbiamo visto sono interni o complici del sistema, noi abbiamo deciso di stare lontani dalle logiche di guerra per la disputa del potere e provare a costruire alternative con chi, in basso e a sinistra, immagina e costruisce quel nuovo mondo fortemente necessario.
Come gli zapatisti, che dopo aver liberato nuovi territori questa estate si accingono ora a costruire momenti culturali, artistici e politici di confronto molto importanti, o come il Movimiento de Mujeres Indigenas che nei territori sottratti all’occupazione dei moderni latifondisti organizzerà nei prossimi mesi il primo climate camp in Patagonia [8], con l’obiettivo di condividere pratiche e teorie e unire le resistenze desde abajo. Insieme, da questo e dall’altro lato del charco. perché solo così possiamo continuare a lottare e a non avere paura della tormenta che avanza.
Tratto da Globalproject
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