In fuga dalla rivoluzione


Seduto sul malecón de La Habana, Alexis guarda con tristezza l’oceano davanti a lui. È agitato l’oceano, proprio come Alexis. Le onde che si infrangono nel muro gli lasciano addosso tutto il sapore della sua isola bagnandogli i vestiti. Ascolta il rumore delle onde ad occhi chiusi, cercando di imprimersi nella mente quel fragore ripetitivo, per non dimenticarlo. L’indomani mattina un volo per Mosca lo porterà via dalla terra che lo ha visto nascere, probabilmente per sempre.

Osservando le nubi scure all’orizzonte Alexis pensa a come è arrivato a questo punto. Tutto è cominciato qualche tempo prima, quando ha deciso di partecipare alle proteste contro il governo. Stanco della miseria, delle difficoltà per reperire cibo, delle code infinite per portare a casa latte e riso, si è fatto forza ed è sceso in strada insieme a molti altri nella sua stessa situazione. Sapeva benissimo a cosa andava incontro, sapeva benissimo che la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Ma non aveva altra scelta: da qualche tempo nubi scure avevano assediato l’isola del sogno rivoluzionario. Proprio come quelle che Alexis vede ora all’orizzonte. Troppo difficile reggere l’urto di un embargo e di una pandemia insieme, che ha sottratto anche le esigue entrate in nero permesse dall’ipocrita turismo occidentale. Troppo difficile vivere in un paese in cui il governo con gli anni ha perso il contatto con la realtà vissuta dal suo popolo, incapace di garantire ancora diritti e benessere, incapace di gestire la situazione senza ricorrere alla mannaia della repressione e del controllo.

Alexis è un figlio della Rivoluzione, ma per lui quello attuale è solo un governo, come ce ne sono tanti altri nel mondo. Per lui è un governo che reprime duramente il dissenso, che non lo lascia libero, che impone restrizioni, che raziona il cibo, che vieta quelle americanate che lo attraggono tanto. Ad Alexis non interessa cosa volesse dire vivere nella schiavitù in cui erano costretti i suoi antenati, non ricorda i sacrifici della generazione precedente alla sua per liberarsi dalla dittatura, non gli interessano gli equilibri geopolitici e la storia, dolorosa, dell’embargo che da oltre sessant’anni strozza l’isola. Ad Alexis non interessa che di quest’isola che ora gli sta stretta, si pensi ancora che garantisca il diritto a non morire di fame, a una casa, alle cure e all’istruzione, e che oltre quell’oceano in tempesta quegli stessi diritti sono spesso vincolati al ricatto dello sfruttamento lavorativo. Alexis vive il suo presente fatto di miseria e stenti, vuole di più e per lui la colpa è di quell’uomo coi capelli bianchi che appare sempre in televisione a dire che va tutto bene, che non ci sono rivolte per le strade ma solo qualche facinoroso manipolato dal nemico del nord. Per questo ha deciso di protestare.

Incontro Alexis per caso, a casa di un amico che lo sta ospitando. E il suo racconto mi sbatte in faccia la crudezza di chi Cuba l’ha vissuta in tutta la sua miseria. È stanco, è arrivato la mattina in città dopo un viaggio cominciato otto mesi prima, in fuga dalla capitale cubana e dalla rivoluzione. Lo guardo e ascolto con la diffidenza tipica di chi vede in Cuba un esempio, mentre comincia il suo racconto davanti alla coppetta di gelato alla fragola che ho preparato io stesso e portato dal mio amico. Tra una parola e l’altra mi guarda Alexis, mi fa i complimenti per il gelato. Ringrazio e sorrido. Lo guardo anche io: è un uomo come tanti, tratti caraibici ma niente di particolare che attiri l’attenzione. Niente tatuaggi, niente stile reguetón cubano, veste una semplice maglietta grigia e un paio di pantaloncini corti, anche quelli grigi. Ha i capelli corti e la barba di due giorni, l’unica cosa che mi colpisce è il suo sguardo stanco, di chi ne ha passate tante.

Ha voglia di parlare Alexis, di raccontare cosa l’ha portato fin qui e come ci è arrivato. Da La Habana è partito con sua moglie Yanelis e suo nipote Alejandro e in aereo ha conosciuto altri connazionali nella sua stessa situazione. Yanelis interviene: «abbiamo fatto appena in tempo, la polizia ci stava venendo a prendere la mattina che siamo andati all’aeroporto». Mosca è stata la loro prima tappa, ma non la meta finale. Alexis racconta che l’unico modo di uscire dall’isola legalmente è quello di andare in Russia, altrimenti si deve tentare la sorte su un gommone per provare a raggiungere Miami. In Russia hanno trovato una piccola comunità di connazionali pronta ad accoglierli per fortuna ma, vuoi il freddo, vuoi le difficoltà linguistiche hanno deciso di andare in Spagna dove, gli hanno detto dei conoscenti, c’è una comunità più grande di cubani e dove il clima e la lingua non sono dei problemi. Nei gelidi mesi invernali a Mosca non si sono trovati bene, hanno sofferto, hanno pianto di nostalgia, si sono lasciati prendere dallo sconforto e dalla paura. Poi hanno dovuto partire in fretta e furia, prima che anche quelle frontiere gli chiudessero le porte in faccia. I venti di guerra hanno cominciato a soffiare così forte che una mattina Alexis, Yanelis, Alejandro e altri cinque esuli cubani hanno ripreso il viaggio. Grazie a un amico che vive a Miami hanno acquistato un volo per la Serbia, ma da lì in poi si sono dovuti arrangiare e hanno cominciato a camminare. Si, a camminare, a fare autostop, a prendere piccoli trasporti urbani coi pochi soldi rimasti.

Lentamente hanno attraversato la penisola balcanica, dormendo nei boschi, in rifugi improvvisati o nelle tende. Spesso le notti sono state momenti difficili, pericolose, ma sono riusciti sempre a cavarsela in qualche modo. Di bosco in bosco hanno attraversato il confine con la Bosnia senza troppi problemi e da lì si sono diretti verso la Croazia. Sul confine croato sono arrivate nuove difficoltà. La polizia è stata irremovibile: per sette volte hanno provato a passare, assieme ad altri migranti e per sette volte sono stati respinti, spintonati, picchiati. Alexis racconta che una poliziotta dai capelli rosso fuoco e rasata ai lati, alta due metri e con braccia possenti in uno dei tentativi ha colpito ripetutamente sua moglie, l’ha fatta cadere, e nemmeno lui è riuscito a fermarla. Poi finalmente, all’ottavo tentativo, sono riusciti a passare. Si sono presentati alla polizia della prima città che hanno incontrato perché non volevano problemi, volevano solo arrivare in Spagna. Il viaggio è stato lungo e dopo le botte prese alla frontiera croata Yanelis non ce la fa più, le fanno male le gambe. Così sono costretti a portarla in spalla, «e non è una passeggiata», scherza lei, toccandosi le spalle robuste. In Italia ci arrivano ancora camminando o sfruttando la gentilezza di qualche camionista, poi da Trieste in treno fino a Mestre. Ora il discorso si sposta sul prosieguo del viaggio, sulla Spagna tanto desiderata. Il gruppo intanto si è sciolto, i cinque connazionali che accompagnavano Alexis, Yanelis e Alejandro sono già ripartiti ma loro, vuoi per la stanchezza, vuoi perché sono a corto di soldi non sanno che fare. Nella testa gli balena anche l’idea di fermarsi qui dove hanno trovato alcuni cubani e forse potrebbero anche adattarsi, «visto che la lingua non è difficile come in Russia» dice Yanelis. Ma è solo un’idea, ricominciano subito a sognare la Spagna.

Riprendiamo a discutere su come proseguire il cammino. Comincio a sentirmi partecipe del viaggio, complice di persone che si trovano nella difficile condizione di esuli, di dover scappare non solo dal paese natale divenuto improvvisamente ostile ma anche da leggi che invece di aiutarli e di proteggerli li mettono ancora di più in pericolo e in difficoltà. Dopo aver ascoltato gran parte della loro storia la mia diffidenza è venuta meno. Così gli dico di stare attenti, in Italia viviamo una brutta stagione di razzismo e i controlli delle forze dell’ordine possono essere pericolosi. Gli racconto dei lager per migranti che ci ostiniamo a chiamare “centri di accoglienza”, gli racconto dei partiti xenofobi che hanno instillato nella popolazione il virus del razzismo, contagioso e difficile da debellare. Poi proviamo a immaginare insieme la strada da fare. L’aereo è escluso per via del visto che non hanno e dei controlli più probabili negli aeroporti, non rimane che proseguire via terra. In treno fino a Ventimiglia, ma «attenti lì che quella è una frontiera molto frequentata e pericolosa» dice il mio amico. Ogni opzione, viaggio in auto private, o con mezzi pubblici o a piedi ha i suoi rischi e fa rabbia pensare che sia così, che non tutti possano decidere in libertà di muoversi, di costruirsi un futuro dove si vuole. Fa rabbia pensare che al mondo ci siano milioni di persone costrette a emigrare, a fuggire per i più disparati motivi. Fa rabbia pensare che solo perché non si ha un piccolo pezzo di carta si è considerati e trattati come delinquenti, senza aver mai fatto nulla di male. Fa rabbia pensare che anche nell’isola del sogno rivoluzionario ci siano complessità e contraddizioni così grandi e inaccettabili. All'improvviso il pianto di mio figlio mi riporta alla realtà. È tardi ed è ora di tornare a casa. Ci salutano con calore, dopo tanto peregrinare e tante difficoltà trovare finalmente un luogo accogliente, persone che non respingono ma che aiutano e che condividono quel che hanno deve essere stato molto importante per loro.

È l’alba e le prime luci rischiarano la spiaggia dorata di Barceloneta. Alexis è seduto sulla sabbia e guarda il mare calmo davanti a lui. Questa mattina si è svegliato presto nonostante la stanchezza per il lungo ed estenuante viaggio. Nella testa il rumore delle onde che si infrangono nel malecón de La Habana. Troppo forte la nostalgia del mare e il desiderio di risentire quel rumore e lasciarsi andare ai ricordi. Così si è alzato e ha cominciato a camminare arrivando fino a lì, fino a quella magnifica spiaggia. Guarda verso l’orizzonte Alexis, guarda il sole sorgere e con lui la nuova vita che si apre davanti ai suoi occhi.


Ho sbattuto contro Alexis, Yanelis e Alejandro (nomi fittizzi) per caso una sera di metà maggio. Ho ascoltato la loro storia, prima diffidente, poi sempre più coinvolto e ho deciso di raccontarla perché, possiamo avere ideali differenti, possiamo essere diversi in molte cose, provenire da luoghi lontani e avere un bagaglio di storie che ci piacciono o meno. Ma tutte e tutti dovremmo avere il diritto di poter scegliere di camminare per il mondo, di poter scegliere dove piantare le nostre radici. E avere una seconda opportunità.
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