«La “seconda ondata” fu anche peggio della prima se guardiamo i dati ufficiali, anche se non ci fu un vero e proprio lockdown generale. Venivamo da un’estate spensierata, i giochi all’aperto, gli incontri con gli amici, il mare, le gite e l’attesa della tua nascita... Eppure in cuor nostro nutrivamo molte perplessità sull’autunno che stava arrivando, soprattutto sul rientro a scuola di tuo fratello. E infatti, nel giro di qualche mese ripiombammo nell’incubo, con centinaia di migliaia di contagi e di morti accertati e chissà quanti invisibili alle statistiche.
Quando decidesti di nascere a fine agosto io e tua madre capimmo che non era ancora finita l’emergenza: in ospedale era ancora tutto “blindato”, riuscii a partecipare al parto ma poi per i tre giorni del ricovero ebbi solo mezz’ora al giorno di visita e a tuo fratello proprio non lo fecero entrare. Ma più di questo ci accorgemmo che la quotidianità attorno a noi era cambiata: furono davvero pochi i momenti in cui riuscimmo a condividere questa gioia immensa con amici e parenti e quelle rare volte fu sempre all’aperto. La pandemia si era già insinuata nel profondo della società distribuendo paura e diffidenza anche in persone come noi che affrontarono quel periodo con intelligenza, senza isterismi e senza credere a complotti.
Sul fronte scuola passammo l’estate ascoltando una polemica assurda sui banchi monoposto ma di concrete soluzioni per garantire il diritto allo studio non se ne parlò. Per esempio, quando ad ottobre il virus riprese a diffondersi, nessuno volle prendere in considerazione il nodo dei trasporti pubblici che, come e più di prima, vennero considerati solo dal punto di vista economico (e quindi riducendo le corse laddove sarebbe stato necessario raddoppiarle per evitare assembramenti durante le ore di punta) e mai dal punto di vista di diritto alla mobilità in sicurezza. Fu proprio questo, l’assembramento nei mezzi pubblici, uno degli elementi per cui decisero di ricominciare con la didattica a distanza: invece di investire nella mobilità lo ritennero semplicemente un costo insostenibile, usandolo come scusa per chiudere le scuole. D’altra parte per il potere l’istruzione pubblica è sempre stata un costo, non tanto a livello economico ma in quanto formatrice di “pensiero critico” in grado in futuro di divenire un pericoloso nemico. La situazione divenne presto insostenibile anche all’interno degli istituti, dove peraltro c’era una situazione di assoluta sicurezza con tutte le misure adottate e, nella stragrande maggioranza dei casi, rispettate da personale della scuola, docenti e studenti. Tuttavia, come ti ho già detto, il virus si diffondeva nei trasporti pubblici, nei luoghi di lavoro e sì, spesso anche negli assembramenti al bar di quella parte di popolazione negazionista o che semplicemente credeva fossero tutte esagerazioni e che trovava tremendamente ingiusto dover rinunciare all’aperitivo e alla “normalità”. Esagerazioni: quasi due milioni di persone furono ufficialmente contagiate e per alcuni erano esagerazioni, da non credere! Così ben presto anche all’interno delle aule cominciarono a scoppiare i primi focolai, le prime quarantene di classe finché le scuole superiori si ritrovarono nella situazione paradossale di vedersi arrivare questi bellissimi banchi nuovi e contemporaneamente dover ricominciare con la didattica a distanza lasciando gli studenti a casa. La scuola d’infanzia di tuo fratello fu tra le prime a doversi fermare qualche giorno per un focolaio tra i più piccoli: era ancora l’inizio e c’era molta confusione, nessuno sapeva bene cosa fare, nessuno aveva informazioni precise. Così, per un semplice “naso colante” fummo costretti a fargli un tampone che naturalmente risultò negativo.
Con il passare dei giorni apparve sempre più chiara una cosa: dietro la retorica governativa della difesa del diritto allo studio si celava in realtà l’intenzione di salvaguardare l’economia del paese, altroché! Ai primi accenni di risalita dei contagi infatti le scuole superiori furono chiuse lasciando spazio alla didattica a distanza. Rimasero aperte invece le medie, le elementari le materne e i nidi, pur con le chiusure temporanee e parziali laddove si registrarono focolai, e questo perché lasciare a casa bambini piccoli avrebbe significato dover lasciare a casa anche i genitori ed inceppare così il meccanismo produttivo, già di per sé in fortissima difficoltà.
In quei mesi autunnali osservai da vicino il mondo della scuola perché facevo l’educatore con ragazzi e bambini con disabilità. Facendo il jolly e sostituendo i molti colleghi ammalati ebbi modo di vedere da vicino molte scuole della nostra città e capii ben presto che i problemi andavano ben oltre la frequenza scolastica o meno. La didattica a distanza era la punta dell’iceberg di un drammatico problema sociale. Per esempio, stava cambiando irrimediabilmente il modo di stare a scuola: le restrizioni e i divieti facevano somigliare le scuole a delle caserme, con percorsi guidati e disciplina ferrea da rispettare a tutti i costi. Il sistema delle “bolle” risultava spesso incomprensibile ai bambini, che ti guardavano con gli occhi sgranati quando gli dicevi “non puoi andare da quella parte” o “non giocare con quel bambino” quando poi, finita la scuola, giocava proprio con quel bambino. Poi c’erano tutte le ricadute psicologiche su adolescenti e bambini che sembravano disinteressare ai più. Ricordo che una maestra di una scuola d’infanzia mi disse che non riconosceva più i suoi bambini: al ritorno a scuola a settembre sembravano incapaci di stare insieme, di giocare serenamente; erano molto più agitati e nervosi. Anche sui più grandi c’erano ricadute negative: immaginati un’adolescente a cui tutto a un tratto gli si restringono gli spazi di aggregazione, di socializzazione, di libertà. Sì, perché poi ci dimentichiamo che la scuola non è solo didattica e studio è anche un cammino di crescita e di vita che gli studenti fanno assieme ad altri coetanei accompagnati da figure adulte e quando questo venne a mancare fece aumentare la sensazione di vuoto e di solitudine con conseguenti problemi legati alla sfera psicologica. Senza contare che dal punto di vista didattico fu un disastro, con programmi che avevano ritardi di mesi e un’impreparazione generale che faceva venire i brividi.
A metà novembre la situazione era drammatica ma tutto proseguiva come niente fosse: quasi cinquantamila contagi e un migliaio di morti al giorno, ospedali nuovamente al collasso, famiglie in difficoltà economica. Era una guerra, drammatica e silenziosa. Una guerra che vedeva tutti noi cittadini in lotta gli uni contro gli altri. E non era un caso. Fu una precisa strategia governativa, “divide et impera”, quella di metterci gli uni contro gli altri, per far ricadere le responsabilità politiche e di sistema sulle singole persone, garantendo diritti, o forse dovrei dire privilegi, ad alcune categorie e negandole agli altri, intervenendo con pochi spicci a sostegno delle famiglie col “sistema del piccione” che si azzuffa per le briciole. Vuoi un esempio? Ad un tratto il presidente del Veneto lanciò il bonus di mille euro per i neonati... fino ad esaurimento fondi. Voleva dire che chi prima arrivava prima prendeva e gli altri muti. Il tutto gestito online, quindi mettendo anche la tecnologia come ostacolo per ricevere il bonus. Sta cosa dei bonus poi prese il sopravvento. Ne fecero di tutti i tipi, bonus mobilità, bonus ristrutturazioni, bonus elettronico, bonus vacanze, bonus mobili, bonus elettrodomestici e via dicendo. Ma poi c’erano sempre intoppi o difficoltà ad accedere ai sistemi informatici. Insomma una confusione incredibile e questi contributi non sempre andarono a finire nelle tasche di chi realmente aveva bisogno.
Perché il problema è che la pandemia aveva evidenziato ed acuito la disuguaglianza: a fronte di una maggioranza di persone che se la passava davvero male, pochissimi maledetti riccastri fecero vagonate di soldi. Non è vero che non c’erano più soldi, i soldi c’erano ma erano tutti nelle avide mani di pochi farabutti che lucravano su questa tragedia. La crisi colpiva solo i più poveri, mai come prima! E i bonus non servivano a niente, erano solo palliativi per cercare di dare le briciole e sedare le rivolte e il malcontento che un po’ ovunque nel mondo scoppiava. L’unica cosa che andava fatta era una patrimoniale per finanziare un reddito universale per tutte e tutti, un esproprio forzato a chi aveva i soldi, a chi aveva provocato questa crisi, a chi continuava a fare profitti senza ritegno mentre la maggioranza delle persone faticava a sopravvivere.
Verso Natale “magicamente”, o forse grazie a quelle poche misure prese dal governo, i contagi, i morti e la pressione negli ospedali diminuirono, quel tanto da permettere di far arrivare nelle case degli italiani Babbo Natale e a non fare impazzire tutti. Ma era tutto calcolato, fu l’ennesimo maldestro tentativo di salvare la più tossica idea degli esseri umani, l’economia, il tentativo di ritornare a quella innaturale “normalità” a cui tutti anelavano ma che in realtà era stata la causa di tutto questo. Era il sistema capitalista il virus e il mondo intero cercò per anni di curarsi da questo maledetto virus con altro virus, altro capitalismo, più sfrenato, più tossico ancora. Come disse Zibechi appena scoppiò il caos “questa pandemia non è una parentesi che è iniziata ora e che si chiude quando scelgono di annullare le misure. No, questo è un nuovo periodo storico, che è arrivato per restare». Ci vollero anni per uscirne, ci vollero anni per capirlo che l’unica possibilità di uscire da quel vortice autodistruttivo era la ricostruzione del rapporto con la natura perché solo armonizzando questo rapporto avremmo avuto la possibilità prenderci cura ognuno della propria comunità. Ricostruire comunità, simbolo di salute, far nascere una “società della cura” dal basso, solo così quel maledetto virus chiamato sistema capitalista avrebbe potuto essere sconfitto.
Ma questa figlio mio, è un’altra storia...
Qui la prima parte, Racconto dal futuro sulla pandemia
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