È il momento di preservare la vita e non il lucro

Da quasi un mese siamo in isolamento. Per i "non indispensabili", i giorni scorrono monotoni e tutti uguali, confinati nelle mura domestiche come ci hanno ordinato di fare, tra un impasto per il pane e un'occhiata ai like ricevuti nell'ultimo post sui social. Un mese e purtroppo ancora non si vede la luce in fondo al tunnel in cui siamo entrati. No, non mi riferisco ai dati, alle curve, ai grafici drammatici su ammalati, posti in terapia intensiva, morti, mi riferisco a ciò che questa emergenza avrebbe dovuto portarci: la consapevolezza che "è il momento di preservare la vita e non il lucro" [1].

Solo due settimane fa scrivevo che eravamo in bilico, tra la paura e la speranza. La paura, che continua a contagiare milioni di persone, che li orienta ad odiare i runners, i padroni che portano a spasso i cani, i genitori che fanno giocare i bambini, che porta a infamare chi esce di casa senza motivazione o a spulciare nei carrelli per controllare se le persone che vanno a fare la spesa acquistino prodotti indispensabili o meno mentre nel silenzio più totale le fabbriche non essenziali cambiano i codici ATECO per restare aperte dando nuova linfa al virus maledetto. La paura, che ha uno scopo ben preciso, quello di distogliere l’attenzione dalle responsabilità politiche, dal nodo fondamentale: «Oggi confinate e confinati nelle nostre case o dove viviamo, ci scontriamo di nuovo, per preservare la nostra vita, coi proprietari di denaro e di decisioni, che sono la causa di questa aggressione criminale non solo contro gli esseri umani, ma contro tutti gli esseri viventi, contro la nostra casa comune, il nostro Pianeta, la nostra Madre Terra», scrive Oscar Olivera, "guerrero del agua" di Cochabamba, in Bolivia.

La speranza invece che finalmente riusciremo a sentire il rumore del nostro mondo che si distrugge, come profetizzato in tempi non sospetti dagli zapatisti, e che cresca la consapevolezza, come dice Raúl Zibechi, che «questa pandemia non è una parentesi che è iniziata ora e che si chiude quando scelgono di annullare le misure. No, questo è un nuovo periodo storico, che è arrivato per restare», che se non restiamo vigili, il dopo sarà anche peggiore di queste settimane in cui siamo reclusi in casa.

Se ancora non lo abbiamo capito, non abbiamo bisogno di più militari nelle strade, di più autoritarismo. Non abbiamo bisogno di finire di distruggere il poco senso di comunità che è rimasto nella nostra società. Non abbiamo nemmeno bisogno di delegare a politici, esperti, virologi classisti o guru vari la salvaguardia della nostra salute e della nostra vita. Non abbiamo bisogno della carità, delle briciole. Al contrario, questa pandemia ci dovrebbe aver fatto capire che abbiamo bisogno di più medici, infermieri, posti letto in ospedale, di più diritti e di più servizi, di un #redditodiquarantena universale che permetta a tutte e tutti di vivere con dignità. Abbiamo bisogno di più solidarietà tra i los de abajo, di più auto organizzazione spontanea per sopperire alle inevitabili mancanze delle istituzioni decadenti.

Guardare alla nostra realtà può essere sconfortante, per questo credo possa essere un importante stimolo osservare l'agire di altre realtà di fronte alla pandemia come, per esempio, quello delle popolazioni indigene o dei movimenti del continente latinoamericano. Già in tempi non sospetti, intellettuali come Chomsky, cercavano di avvertirci che «di tutte le grandi potenze in tutto il mondo, chi sta realmente prevenendo il disastro sono le comunità indigene» e questo per il profondo legame che hanno con la pachamama, considerata di vitale importanza per la sopravvivenza della specie umana ed elemento centrale nella costruzione di una società capace di limitare le ingiustizie e le disuguaglianze partendo da una base fondamentale: il rispetto, la protezione e la condivisione di elementi essenziali quali la terra, l'acqua, l'aria.

Sono tante le comunità di popoli originari e i movimenti che, di fronte all'inazione criminale dei propri governi, hanno adottato in totale autonomia misure di protezione delle proprie comunità. Una su tutte quella dell'arcipelago di Chiloé, nel sud del Chile, dove la comunità ha imposto al governo centrale di chiudere le industrie "salmoneras" e di istituire un cordone sanitario che vietasse l'entrata all'arcipelago. Le proteste e le barricate hanno costretto il governo a cedere ed è solo grazie alla pressione costante mantenuta che il cordone sanitario regge ai tentativi del governo di riaprire gli stabilimenti industriali per salvaguardare i profitti economici a discapito della salute degli abitanti.

In Chiapas, gli zapatisti hanno dichiarato "alerta roja" e chiuso i caracoles, ben prima che il presidente messicano decidesse di prendere sul serio l'epidemia. Chiudere i territori ribelli non è stato un fregarsene del mondo esterno, ma prendere coscienza che un'eventuale pandemia avrebbe avuto ripercussioni devastanti su intere comunità, essendo per loro impossibile l'accesso alla sanità pubblica. Così mentre AMLO girava per il paese stringendo mani e dicendo a tutti di non preoccuparsi perché tanto la Virgen di non so che cosa lo proteggeva, gli zapatisti in autonomia hanno cominciato a prendersi cura delle proprie comunità, rendendo i "promoteres de salud" gli incaricati di gestire l'emergenza nelle comunità e invitando i popoli del mondo «a non perdere il contatto umano, bensì a cambiare temporaneamente i modi di saperci compagne, compagni, compañeroas, sorelle, fratelli, hermanoas».

E ancora, il MAB, il Movimento dos Atingidos por Barragens del Brasile, da settimane sta lavorando assieme alle comunità rurali e delle periferie urbane per sostenere le famiglie in difficoltà, attraverso la somministrazione di pasti per chi si trova nella drammatica impossibilità di non poter più guadagnarsi da vivere a causa della quarantena, ma anche attraverso una campagna politica che ha come obiettivi la sospensione delle bollette di acqua ed energia per tutto il periodo dell'emergenza, un reddito di emergenza per chi sta pagando questa crisi e per istituire una tassa speciale per le grandi fortune.

Auto organizzazione e solidarietà è quanto stanno facendo molte altre popolazioni indigene in particolare, la rete guidata dalla CONAIE, l'organizzazione indigena ecuadoriana, protagonista delle rivolte dell'ottobre scorso, che nei giorni scorsi ha lanciato un appello a tutte le popolazioni originarie di Abya Yala per costruire insieme un futuro che non sia un ritorno alla "normalità capitalista".

Per concludere, lascio che siano proprio le parole di questa rete a darci lo spunto per costruire anche noi, un'alternativa al deserto che il sistema capitalista ha provocato nella nostra società: «davanti alla mancanza di abitazioni noi occupiamo i territori e ci costruiamo case; contro la mancanza di lavoro ci organizziamo in cooperative e recuperiamo fabbriche, affrontiamo sgomberi, licenziamenti e sospensioni; contro l’abuso di potere noi scioperiamo per migliori condizioni lavorative; contro la mancanza di sistemi educativi degni noi generiamo scuole; davanti all’oppressione contro le donne e soggettività noi pratichiamo il femminismo popolare; contro lo sfruttamento organizziamo sindacati di base e lottiamo contro la precarizzazione e per un salario degno; contro la fame costruiamo mense popolari; contro il cambiamento climatico pratichiamo l’agroecologia; contro la monocultura e il monopolio degli alimenti lavoriamo per garantire l’autonomia e il controllo del nostro territorio; contro la militarizzazione e il narcotraffico sostituiamo le coltivazioni e lottiamo contro la violenza statale. La nostra alternativa è salvaguardare la vita contro chi pratica la morte».

¡Adelante!

Foto di copertina: pueblo di Tambulla, Perù

[1] Citazione del MAB
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