Della paura e della speranza


Per la prima volta nella mia vita, mi trovo a dover affrontare una reale e concreta situazione di emergenza, che colpisce il mio stile di vita, che mi costringe a mutare le abitudini mie e quelle della mia famiglia. In passato ci sono stati dei momenti difficili. Penso alla nube tossica di Chernobyl che a metà degli anni ’80 si dirigeva pericolosamente verso i nostri territori. O ancora, la guerra del Golfo, così scioccante ma anche così lontana. In epoca più recente, il tanto spaventoso “terrorismo islamico” ha avuto come unica conseguenza la militarizzazione delle città ma nulla più, tanto che l’unico attentato terroristico l’ha fatto un fottuto fascio a Macerata. Tuttavia, mai come oggi, sento che l’emergenza è entrata di prepotenza nella mia vita, generando anche una discreta dose di paura per il futuro.

La paura ha preso il sopravvento su milioni di persone innanzitutto per un dato ben preciso: l’emergenza è vera, di coronavirus si muore ed è potenzialmente devastante, guai a sottovalutarla. Sono i dati a parlare: oltre 600 morti e oltre 10 mila contagiati dall’inizio dell’epidemia, circa tre settimane fa, non sono uno scherzo da prendere sotto gamba. Ad alimentare la paura ci ha pensato anche il governo, con messaggi contraddittori, con fughe di notizie che hanno generato panico, con decisioni politiche che hanno fatto discutere e che di fatto hanno caricato sui cittadini il peso economico della crisi e, ultimo ma forse più importante, per aver messo a nudo la situazione drammatica della nostra sanità pubblica, che sì è un’eccellenza, ma che si trova a gestire una colossale emergenza in una situazione di crisi strutturale, con carenza di posti letto, di strutture, di attrezzatura e di personale che mette a repentaglio la salute dei cittadini che potrebbero ammalarsi.

Dell’emergenza coronavirus che ha investito le nostre vite in questi giorni, due sono gli aspetti che mi hanno colpito maggiormente, sintetizzati in due hashtag: #iorestoacasa e #irresponsabili. L’appello a restare a casa parte naturalmente da un presupposto giusto, evitare il più che possibile contagio, ma è un appello che non prende in considerazione tutte le conseguenze di questo nostro restare a casa. L’altro, invece, è riferito a tutte quelle persone che, in barba al bene comune più prezioso che abbiamo, la nostra stessa vita, se ne vanno in giro ad aperitivi convinti che nulla possa accadergli e che il loro comportamento non arrechi danno alla comunità in cui vivono. In tutto questo noto un preoccupante filo logico, un filo logico di ipocrisia che mostra la nostra società per quello che è diventata: una società totalmente individualista.

Io resto a casa infatti è completamente contraddittorio: da una parte stare a casa in primo luogo dalle feste, dai ritrovi, dalle attività sportive, ludiche e culturali in genere ma anche, per chi può, dal lavoro. Il tutto pagando in prima persona con l’ordinario, vale a dire con ferie, permessi, recuperi, una situazione straordinaria. Dall’altra parte, per molti italiani il “io resto a casa” si traduce in “io resto a casa ma vado a lavorare”, quasi come se per loro non ci sia il rischio di contagiarsi, magari andando a lavorare usando i mezzi pubblici o comunque nell’adempimento del proprio lavoro.

Quanto agli #irresponsabili che se ne vanno in giro a “sbevazzare”, se è vero che rappresentano simbolicamente coloro che se ne infischiano della comunità in cui sono inseriti, dall’altra mettono a nudo l’ormai conclamata eccitazione popolare per la delazione e per la ricerca del capro espiatorio, del colpevole da giudicare responsabile per auto-assolverci da ogni colpa. Entrambi, a mio avviso, rappresentano comportamenti individualisti che contribuiscono al disfacimento delle nostre comunità, già ampiamente disgregate.

Più di tutto però, ciò che mi ha colpito è il costante richiamo al senso di comunità: l’invito a restare a casa non solo per sé stessi, ma per tutta la comunità, per difendere i più esposti e i più bisognosi, gli anziani, i bambini, gli immunodepressi. Un appello questo che nella maggioranza dei casi è pura ipocrisia, dettato più dall’egoistica paura di diventare il numero di una tragica statistica che da un reale desiderio di solidarietà e di prendersi cura della propria comunità. Ma è proprio qui che abbiamo il dovere di intervenire, di aprire una breccia in questa nostra società egoista, chiusa, individualista. È qui che dobbiamo lavorare per far comprendere che tutte le battaglie che portiamo avanti hanno lo stesso tipo di istinto di sopravvivenza e di giustizia che spinge milioni di persone a invocare di stare a casa per il bene di tutte e tutti. 

Perché è per il bene dei più bisognosi e di tutte e tutti che si difendono i territori dal “terricidio” messo in pratica dal sistema capitalista attraverso grandi opere inutili e devastanti; o che gli studenti difendono la scuola pubblica dai tagli economici che anno dopo anno ne minano la didattica; o che operai e lavoratori scendono nelle piazze a difendere i diritti del lavoro; o che i comitati difendono le occupazioni di case per impedire che intere famiglie con bambini vengano buttate in mezzo a una strada e abbandonate; o che i movimenti protestano contro leggi infami che puniscono chi salva vite in mare e chi fugge da fame, miseria, guerra; o che si difende il diritto a una sanità pubblica drammaticamente smontata pezzo su pezzo da anni di tagli economici.

Come tutti i momenti straordinari e di emergenza, anche questo è un momento storico di trasformazioni epocali e sta a noi, desde abajo, provare a determinarne la rotta: quando usciremo da questo tunnel, probabilmente ci troveremo di fronte una situazione mai affrontata prima. Per esempio, dall’alto ogni limitazione delle libertà approvate per il bene collettivo in queste settimane saranno sicuramente considerate misure riproducibili per il controllo sociale e per impedire qualsiasi aspirazione di uguaglianza. A questo e altro dovremmo dare una risposta per impedire, come stanno facendo in queste ore, che ci venga sottratto ancora quel poco di diritti che ci sono rimasti. A cominciare da subito: io resto a casa, sì d’accordo, ma #iorestoacasaPAGATO perché se lo pretendiamo tutti insieme, forse avremo qualche possibilità di ottenerlo questo imprescindibile “reddito di quarantena”. Urliamolo forte allora che è ignobile e da paese incivile che manchino posti letto e attrezzature per affrontare le emergenze negli ospedali pubblici mentre c’è chi lucra sulla salute delle persone. Urliamolo ancora più forte che, è vero che vogliamo tutti guariti dal coronavirus, ma non vogliamo nemmeno che i nostri concittadini si ammalino per l’aria inquinata da PM10 o per l’acqua avvelenata dai PFAS. Urliamolo forte che non vogliamo più sentire parlare di bambini morti di tumore per colpa di quella fabbrica di morte giù a Taranto. Urliamolo forte che non vogliamo più territori saccheggiati e prosciugati delle risorse, dalla Val Susa alla Laguna di Venezia. Urliamolo forte che non ci sono persone di serie a e di serie b, che tutti hanno diritto a essere curati, a vivere dignitosamente a essere accolti. Urliamolo forte che vogliamo diritti e dignità per tutte e tutti. 

Più di tutto però, urliamolo forte, facciamolo capire a quanti oggi chiedono di stare a casa per il bene collettivo, che ogni lotta, ogni protesta, ogni manifestazione, è proprio per il bene collettivo, per i più bisognosi, per chi è in difficoltà: facciamo rifiorire la solidarietà, la fratellanza, il senso di comunità e l’empatia verso i più deboli che questa emergenza sembra abbia generato e che sono il vero antivirale contro tutte le ingiustizie e le disuguaglianze.
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