Settantadue giorni

Settantadue giorni. Tanto è durato il mio congedo dal lavoro in questa calda estate. Ho scelto di prendermi oltre due mesi di congedo perché non voglio aspettare il giorno in cui morirò per pentirmi di non avere osato e lottato per la libertà e la felicità. Ho scelto di crescere il più possibile insieme a mio figlio e di dargli la cosa più preziosa che ho oltre al mio amore: il mio tempo. Ho scelto di sacrificare anche io parte di me e dei miei impegni perché non trovo giusto che la nascita di un figlio sia considerata sempre e solo un carico per la madre.

La mia comunicazione al datore di lavoro è avvenuta con ben due mesi di anticipo, cosa che non mi ha evitato comunque offese alla mia etica, minacce di togliermi il lavoro e atteggiamenti arroganti ingiustificabili e inaccettabili. L'arroganza di chi crede di poter controllare tutto e tutti è riassumibile nell'esclamazione "io non te lo concedo". Per fortuna, il lavoratore non richiede il congedo, lo comunica e basta e al datore di lavoro non resta che prenderne atto.

In questo senso prendersi settantadue giorni di congedo è stato un atto politico molto radicale nel rapporto datore di lavoro/dipendente perché si contrappone alla visione capitalista del lavoratore, soprattutto quello del sociale, che deve mettere da parte la propria vita, la famiglia, i sogni, gli impegni e dedicarsi anima e cuore al proprio lavoro perché il suo lavoro consiste nel costruire il benessere di altre persone. Chi si prende del tempo per la propria felicità non dando disponibilità assoluta è tacciato di lavorare solo per soldi, tra l'altro con uno degli stipendi di categoria più bassi. Certo, ho probabilmente perso la possibilità di far carriera, ma a dire il vero non ce l'ho mai avuta in quell'ambiente, quindi non credo di aver perso niente. Al contrario, ho guadagnato molto come uomo, come padre, come compagno di vita. In questo senso credo che la mia decisione non sia solo un atto politico radicale ma anche un atto sociale rivoluzionario perché va controcorrente rispetto ai ruoli genitoriali che la società impone.

In questi settantadue giorni, ho avuto la possibilità di misurarmi con i miei limiti, di mettermi alla prova nell'accudire mio figlio, ho avuto la fortuna (conquistata, certo) di camminare con lui per oltre due mesi, sempre fianco a fianco, vederlo crescere, guidarlo alla scoperta del mondo, sostenerlo nei suoi piccoli momenti di difficolta e lasciarlo correre nei momenti felici. Ho capito con quanta fatica una madre è costretta a mettersi da parte per il nuovo arrivato, schiacciata nel ruolo che la società le impone. Ho passato momenti meravigliosi ed altri più tristi, ho gioito assieme a lui, mi sono arrabbiato e l'ho sgridato, ho corso, sperato che dormisse mezz'ora in più per farmi recuperare, l'ho accolto a braccia aperte al suo risveglio, mi sono emozionato di fronte alle sue scoperte, alle piccole cose imparate. Non ho imparato né capito tutto, non sono stato perfetto e sicuramente avrei potuto fare di meglio. Mi rimangono comunque due sensazioni importanti: di aver dato felicemente tutto quello che potevo e la soddisfazione di aver avuto la possibilità di farlo.

Col passare dei giorni ho capito anche quanta fatica ha fatto la mia compagna, ma anche quanto sia meraviglioso veder crescere il proprio figlio giorno dopo giorno senza perdersi niente. Invertire i nostri ruoli inoltre è stato un'importante momento di crescita per noi genitori, ci ha fatto comprendere i nostri atteggiamenti, i nostri errori, ci ha messo di fronte a ciò che siamo stati, a ruoli invertiti, nel primo anno e mezzo di vita di nostro figlio.

Mi ritengo fortunato ad aver avuto la possibilità di accedere a questo diritto perché, purtroppo, non è per tutti economicamente possibile. Rimango fermamente convinto che la costruzione di un nuovo modello di società anticapitalista passi anche attraverso decisioni come questa che scardinano i ruoli sociali e che soprattutto mettono tra le priorità le persone, le emozioni, i sentimenti e i sogni, tutte cose che non possono (e non devono) mai finire per essere quantificate economicamente.
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