Cominciò tutto lì, con quell’omino di ferro in maglia a pois che si faceva strada verso il Sestriere tra due ali di folla.
Lui, l’eroe solitario, il visionario, il coraggioso, il generoso solo contro tutti che faceva sognare l’Italia intera in quella afosa giornata estiva. Al traguardo sentivo di aver vinto anch’io.
Finita la tappa, presi la bicicletta e andai a farmi un giro, sognando un giorno di riuscire a compiere imprese simili.
Il ciclismo è lo sport dell’emozione e della passione. Forse più di tutti. Sarà per quelle tappe così dure e impossibili, sarà per le sue imprese, per le sue débâcle, per i suoi repentini cambiamenti inaspettati. È facile innamorarsi del ciclismo, a me è successo proprio lì davanti alla televisione mentre il mio eroe, grazie alla Coca-Cola (come dirà lui stesso), scriveva il suo nome nella storia.
Grazie alla Coca-Cola. Beata innocenza.
Due anni più tardi, vinsi la resistenza dei miei genitori e mi iscrissi in una squadra. Il mio fisico asciutto mi faceva sognare imprese da grimpeur. Dei primi anni ricordo il gioco, la passione, i sogni. Anche tanto impegno, perché il ciclismo è così, si fonda sull’impegno e il sacrificio.
Le prime soddisfazioni arrivarono da juniores dove, grazie ad una più accurata preparazione cominciai a imitare il mio eroe. No, non sto parlando di vittorie ma del modo di approcciarsi alle corse, con coraggio, generosità e molta ma molta spavalderia. Non c’era gara che non provassi a scattare in solitaria per compiere chissà quale impresa. E non c’era gara che non prendessi una vagonata di parole per il mio modo scellerato di correre.
È in questa categoria che cominciano le gare importanti e ci si confronta con atleti di tutta Italia e anche europei. Le competizioni diventano più difficili. Cominciarono a non tornarmi i conti. Si, perché a livello regionale, seppure mai vincente, riuscivo a competere coi più forti, ma a livello nazionale era notte fonda.
Anche se giovane, inesperto e ingenuo, già sapevo che c’era chi barava (il doping, nella seconda metà degli anni novanta non era fantascienza). Tutte voci, tutti borbottii, nessuna prova.
La vera svolta avvenne nel passaggio alla categoria Under 23. Grazie ai miei numerosi piazzamenti ebbi la possibilità di andare in una squadra forte, ma l’amicizia mi fece scegliere per una piccola squadra della provincia di Treviso, la capitale del ciclismo.
Nonostante impegno e sacrificio, le corse divennero un incubo, riuscire a finirle divenne un’impresa. Erano finiti i bei tempi della spavalderia, cominciai ad essere più riflessivo e calcolatore per risparmiare energie. A maggio feci il Giro del Veneto: una settimana, 1000 km e tapponi dolomitici con salite come Pordoi, Falzarego, Duran, degne dei professionisti. Qui cominciai a scoprire il magico mondo degli integratori. Per finire una corsa del genere c’era bisogno di aiutarsi nel recupero fisico quindi sali, zuccheri, vitamine, andava tutto sparato in vena o intramuscolo. Imparai a farmele da solo, faceva parte del gioco, come saper cambiare una camera d’aria o sistemare il cambio. Poche storie. Così feci, finii la corsa ma mi ci vollero due mesi per recuperare.
Negli anni successivi, impegno, costanza e sacrificio, se possibile aumentarono, ma quanto a risultati, lasciamo stare. C’era sempre qualcuno che andava più forte. Molto più forte, come motociclette. E la passione vacillava…
Ricordo bene l’ultimo anno da dilettante: arrivò ad allenarci un ex professionista. O meglio uno che aveva tentato il professionismo, ma era stato rispedito indietro senza tanti complimenti. La squadra si rinforzò anche con l’acquisto di due ragazzi lituani.
Ad inizio anno ero in forma, tanto che in un allenamento di squadra sul Croce d’Aune rifilai 5 minuti ai lituani e 10 a tutti gli altri! Di lì a poco cominciarono le gare ed ero veramente soddisfatto perché mi sentivo in forma. Ma nel giro di due mesi le cose cambiarono radicalmente. Mentre la mia condizione fisica andava calando, quella dei miei compagni cresceva prepotentemente.
Altro allenamento insieme sul Monte Grappa, questa volta fui io a prendere 10 minuti! Nessun problema a mettermi a disposizione dei miei compagni ma qualcosa non quadrava.
La sera stessa il mio allenatore mi portò in albergo e nel tragitto mi fece il discorso: partì dai risultati che stavamo ottenendo come squadra e finì a parlare dei singoli. Ovviamente, benché ingenuo, non ero scemo e sapevo benissimo che i miei compagni avevano fatto ricorso ad “aiutini” esterni, quindi per lui fu facile parlarmi anche di questo.
Ora, non c’è niente di strano e di nuovo, ma il tizio, mi spiega per filo e per segno come si fa, quali effetti può avere sul mio corpo e sui miei risultati, da che dottore andare, chi mi può aiutare e dove posso trovare la roba. Mi dice anche che secondo lui posso aspirare a vincere le corse in salita, le mie preferite, perché il motore c’è. Tralascia ovviamente le contro indicazioni. E come diavolo faceva a sapere tutto ciò? Era un dottore? La risposta mi pare evidente…
E i dirigenti della squadra? Conniventi, d’altra parte, piccola squadra, grande famiglia... Ma allora se anche un tizio qualsiasi che si fa fatica a trovare negli annali dedicati era coinvolto, perché non dovrebbero esserlo tutti gli altri? Se anche una piccola squadra come la mia è parte di tutto ciò perché non dovrebbero esserlo tutte le altre? D’altra parte ho ricordi precisi di ragazzi, anche nella mia squadra, che all’improvviso cominciavano a “volare”. E per alcuni so per certo quello che si sono fatti!
Rimasi impassibile e gli risposi comunque subito di no, per me quello era troppo.
Continuai nei miei sacrifici e col mio impegno, continuai ad aiutare i miei compagni e la stagione finì li. Credo che in quella stagione finì anche la mia storia d’amore con il ciclismo. Gli allenamenti iniziarono a diventarmi pesanti, persi completamente la passione.
Per mia fortuna quelli erano anche gli anni di Genova e di un altro mondo possibile. Cominciai a interessarmi al Chiapas degli indigeni zapatisti e alle lotte per i diritti sociali. Il mondo del ciclismo mi stava stretto, troppo massonico, troppa disonestà, troppi rischi, troppi sacrifici per niente.
Attorno a me gli eroi del ciclismo cominciavano a cadere come cachi marci, perfino ragazzi con cui avevo fatto tutta la trafila nelle giovanili cadevano sotto i colpi dell’antidoping. All’interno tutti sapevano, ma facevano finta di niente. Fu la goccia finale. Il ciclismo non lo avrei potuto salvare, mi dissi, perché anche se i cachi marci cadevano, l’albero restava fermamente in piedi.
In quegli anni iniziarono i grossi scandali doping, ce ne sono centinaia, ricordarseli tutti è davvero un’impresa: dall’Affaire Festina a Pantani, dal caso Fuentes a Cipollini per finire col più inaspettato e meno scioccante di tutti, Armstrong!
Sinceramente, tutto sto clamore sul doping nel ciclismo non mi ha mai convinto, mi è sempre sembrata una difesa estrema di un sistema.
Per dirla alla zapatista…
...quelli in alto, che sono del tutto simili a quelli in alto dei malgoverni, guardano quelli in basso e capiscono che quelli in basso non gli credono più e che gli sta crollando addosso il castello di falsità. Allora si dicono che forse è il caso di far vedere a quelli in basso, quelli che ingenuamente o stupidamente danno forza e potere a quelli in alto con la loro passione, che non è vero, che in verità quelli in alto non sono mai stati complici o conniventi, che al contrario loro amano questo sport e che stanno facendo di tutto per sconfiggere il terribile cancro che lo attanaglia. Così, sempre quelli in alto, si mettono insieme e discutono, e discutono, e discutono e alla fine una mente brillante partorisce l’idea di fare il sacrificio estremo per salvare il loro giocattolo e se stessi.
E il gioco è fatto. Tolta la mela marcia, anche la più incredibile come il texano dagli occhi di ghiaccio, il giocattolo torna nuovo e quelli in alto riacquistano credibilità. E potere.
Abbiamo cacciato il male, dicono, stiamo vincendo questa difficile battaglia!
Ma una cosa nascondono a quelli in basso: il vero male sono loro.
Ma, dico io, a nessuno viene in mente che è impossibile che agli alti livelli, quelli li, quelli del malgoverno del ciclismo, non sapessero niente di come funzionasse il sistema? A nessuno viene in mente di mandare affanculo (perdonate il francesismo) quei giornalisti che ancora oggi osannano il martire con la bandana di Cesenatico? Cosa pensate che facesse quello? Maddai, ecchediamine! Oppure, a nessuno viene in mente di mandare nel medesimo posto tutti quei dirigenti o ex ciclisti che continuano a difendere il passato o a trovare scuse ed attenuanti? A nessuno viene in mente di mandare, sempre lì, tutti i vertici organizzativi che per anni hanno chiuso gli occhi? O tutti quei luminari della scienza, quei dottori, quei preparatori, quegli allenatori, quei massaggiatori, quei meccanici e tutti quegli atleti che hanno infestato questo sport con il dogma della vittoria ad ogni costo. Nessuno dei sopra indicati soggetti ha mai pensato di fare schifo e che sarebbe il caso di sparire? Sono connivenza e omertà di tutti gli attori in gioco ad aver portato a questo punto.
Il problema non è beccare questo o quel mito con le mani sporche di sangue (è proprio il caso…) ma è lo stesso concetto di sport a dover cambiare: finché rimarrà il disprezzo per la sconfitta e gli sconfitti, ci sarà sempre chi tenta di barare per non essere disprezzato. Com’è naturale che sia. Idolatrare il mito, l'eroe di mille imprese solitarie, concedergli onore, gloria e denaro e nel contempo commiserare e umiliare il più debole. Questo deve cambiare.
Lo so, sono passati più di dieci anni da quando ho lasciato quel mondo. Magari le cose sono cambiate, che ne posso sapere io che non frequento più l'ambiente? Già, le cose sono cambiate, ma fatalità continuano a beccarli!
Una cosa comunque l'ho capita: non sempre sottostare alle regole del gioco, siano esse legittime o illegittime, è un bene. Magari ti tocca uscire dal gioco, ma vuoi mettere la soddisfazione di poter dire di non essersi piegati?
Così è nata la mia passione per il ciclismo. E così è anche morta. Al netto di tutto questo però rimane l’assoluta bellezza di questo sport, la meraviglia di pedalare tra panorami spettacolari, la gioia e la fatica per raggiungere una vetta nel minor tempo possibile, l’adrenalina nell’affrontare una discesa a 100 km/h, la solidarietà che nasce tra atleti in difficoltà, la gioia per un risultato inaspettato che ripaga mesi di sacrifici.
Queste emozioni e questa passione non me le hanno tolte. E ciò che mi resta di questa esperienza, è ciò che è realmente il ciclismo!
Il resto, i sogni di successo e gli eroi che compiono imprese grazie alla Coca-Cola sono solo spazzatura per gli idioti e per chi non vuol vedere, portata da chi non ama veramente questo sport.
Tratto da Sportallarovescia
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