Non c’è solo l’orribile decreto Pillon a farci ripiombare nel medioevo culturale e dei diritti. Solo dopo un’accesa polemica col presidente dell’INPS Boeri, secondo cui la Manovra è maschilista, il ministro della famiglia ha promesso di prorogare per tutto il 2019 il congedo paterno “lungo”. Che poi lungo è una parola grossa, infatti, solo dal 2018, dopo cinque anni di sperimentazione, il congedo paterno è arrivato addirittura a cinque giorni lavorativi retribuiti al 100%.
La promessa della proroga non va ovviamente di pari passo con un’altra promessa, quella di investire per il prossimo triennio oltre 300 milioni per la famiglia, tradizionale si intende, con ulteriori benefici alla maternità che acuiscono la disparità di trattamento con la paternità. D’altra parte è risaputo che per il ministro l’unico compito delle donne è essere mogli fedeli e sottomesse e madri che sfornano e allevano figli per la Patria.
Nulla a che vedere per esempio con gli investimenti sulle pari opportunità concessi in Svezia dove i neo papà hanno a disposizione 15 giorni alla nascita, poi altri 90 giorni con uno stipendio dell’80% e infine altri 300 giorni da dividere con la madre. La cosa credo non sorprende nessuno, innanzitutto per la linea medievale di questo governo, ma anche purtroppo per l’abitudine patriarcale che ci portiamo dietro come un fardello di pensare che la cura dei figli sia un esclusivo compito materno. E hai voglia a scardinare un pensiero che perfino in ambienti “progressisti” è duro da scalfire.
Quando nell’aprile dello scorso anno ho comunicato al mio datore di lavoro la decisione di prendermi l’estate di congedo parentale, ho di fatto messo la parola fine al mio rapporto di collaborazione con l’associazione per la quale svolgevo il ruolo di educatore. Ho comunicato la mia scelta in un’equipe tumultuosa iniziata con un’arringa disgustosa su una collega appena entrata in maternità. La reazione della presidente dell’associazione è stata «io non te lo concedo» e, a seguito della mia pronta risposta «non sto chiedendo, sto comunicando», ha ribattuto con «allora farò in modo che non sia più finanziato il tuo progetto, così rimani senza monte ore». E in effetti, tornato dal mio congedo, ho dovuto fare i conti con la “punizione”. La famiglia titolare del progetto scolastico che seguivo fatalità aveva deciso di non avvalersi più dei nostri servizi, per cui le proposte del datore di lavoro sono state: riduzione oraria (da 38 a 15) o demansionamento e spostamento in altro comune (a 20km). Il tempo indeterminato e l’anzianità di servizio non mi hanno salvato dall’epurazione.
Fortunatamente non tutto il male vien per nuocere. La scelta di prendermi il congedo era dettata da una forte necessità, mia e quella della mia compagna. La mia necessità era, ed è, quella di prendermi cura di mio figlio, vederlo crescere, crescere insieme a lui cercando di perdermi il meno possibile di questa fase della sua vita. Per questo motivo non ho avuto la benché minima esitazione e sono giunto a un’accordo con l’associazione, rinunciando al posto di lavoro ma con la possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali, grazie anche ai preziosi aiuti dei compagni del sindacato ADL di Treviso. La mia compagna invece, dopo due anni di simbiosi con il pupo, sentiva forte l’esigenza di non essere un’appendice del figlio, di non essere considerata esclusivamente la mamma di Emiliano, di non sentirsi incatenata ad un ruolo deciso dalle tradizioni di questa società.
Già le vedo le facce sdegnate dei lettori, i dubbi e i giudizi verso questa coppia strampalata che ha invertito i ruoli, coppia degenere con un maschio in gonna e una donna in pantaloni che mettono in crisi le profonde certezze culturali, impossibili da cambiare, che ci portiamo nel DNA. Già le sento le vocine che dicono «guarda quello, non ha voglia di lavorare, si fa mantenere», oppure ancora «guarda quella, che cattiva madre». Già le immagino le facce sghignazzanti dei più maligni… In verità, queste vocine, questi commenti e queste facce sghignazzanti non ci toccano affatto, perché ad essere toccati sono i vostri pregiudizi non i nostri, le vostre sicurezze, non le nostre. In verità non ci interessano perché sono figli del sistema patriarcale, sistema su cui è fondata la nostra società e che porta disuguaglianze, violenza e sfruttamento. Sistema che abbiamo deciso di combattere non solo con l’attività politica (per la verità pochina ultimamente), ma anche con una pratica quotidiana di buon esempio. Di questa scelta non ci vergogniamo, sebbene a volte sia molto difficile da far capire.
Sarebbero tanti i temi da trattare, da quello della disuguaglianza tra uomo e donna sul lavoro, a quello dei diritti. Quello che mi ha colpito invece è l’aspetto “culturale” di questa vicenda. Innanzitutto salta subito agli occhi il disinteresse alla questione anche in ambienti di movimento. Su questa discriminante decisione di governo su un’opportunità per i neo papà di per sé già fondata su una discriminazione, ci sono poche voci che protestano. In secondo luogo è stato, ed è tutt’ora, difficile spiegarlo e farlo accettare ad amici, parenti e conoscenti. Dai timori economici di mia madre («Ma ce la fate con le spese?»), a quelli più improntati sull’aspetto di genere («E quindi fai il mammo?»), è tutto un dover dare spiegazioni e giustificazioni anche se in realtà dovrebbero essere i dubbiosi e i critici a dover dare spiegazioni dei loro commenti. Perché si, ce la facciamo come qualsiasi famiglia in cui, secondo la sacra tradizione, lui lavora e lei no. E no, non faccio il mammo, faccio il padre a tempo pieno perché per me non c'è niente di più bello che dedicarsi alle persone che si amano e niente di più importante della responsabilità che mi sono preso. E si, faccio la spesa, le pulizie, le lavatrici, cucino perché non c’è scritto da nessuna parte che siano compiti esclusivi di una donna. E se questa cosa vi fa ridere, forse avete talmente tanto assimilato il vostro ruolo di uomo o di donna da non accorgervi che siete diventati una piccola parte dell’ingranaggio del sistema patriarcale e se non siete disposti nemmeno a mettere in gioco le scelte altrui, significa che vi stanno bene queste regole non scritte.
Non dico che tutti dovrebbero farlo, che è giusto così. Dico che ogni persona dovrebbe avere il diritto di farlo. Dico che ci dovrebbero essere più diritti per le mamme e per i papà e più tempo da poter dedicare alle cose veramente importanti. Dico che non dovrebbe scandalizzare, dico che siamo ben lontani da una concreta parità di genere non tanto per la mancanza di una legge adeguata ma per la mancanza di una predisposizione a mettere in dubbio le nostre certezze e i nostri limiti culturali.
Per concludere, non va dimenticato un aspetto importante: mi rendo conto che siamo fortunati a poter prendere una simile decisione, perché nella maggioranza dei casi, entrambi i genitori sono costretti a lavorare, magari con paghe misere e orari infami, e a lasciare la custodia e l’educazione dei propri figli ai nonni o a estranei. Mi rendo conto che questo sistema ci vuole incatenati a dei ruoli ben precisi e a subire decisioni e soprusi senza porsi nemmeno un dubbio. Soprattutto, mi rendo conto che è ora di dire basta, che è tempo di smantellare questi castelli di convenzioni che ci rendono schiavi. Di ripensare ai nostri ruoli in questa società perché, la storia del nostro pianeta ce lo insegna, chi non si evolve è destinato all’estinzione.
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