La lotta di Ana


«Il 19 gennaio 2010, circa alle 9 di mattina, Oscar mi chiamò e mi disse: «Mamá, non ti preoccupare, sto bene». Disperata gli ho chiesto come stava, perché non si fosse più fatto sentire; mi disse che stava bene, che si sarebbe fermato altri tre mesi e che era in un posto che era come un’isola. Gli chiesi di ritornare. Stavamo parlando quando cadde la linea a metà della conversazione, mai avrei immaginato che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei sentito». [1] 

Da quel giorno ha inizio il calvario di Ana, un calvario difficilmente descrivibile a parole perché la sparizione forzata è forse il delitto più efferato, più infame, più ignobile che esista. La sparizione forzata non solo colpisce la vittima, ma colpisce con disumanità anche tutti coloro che sono legati da un rapporto affettivo con la vittima stessa. E lascia senza parole, senza fiato, distrugge di dolore e annichilisce. Perché non solo ti strappa l’amore dalle braccia, ma ti costringe a vivere con la sofferenza dell’incertezza, di non sapere la sorte del proprio caro, di non sapere se sta bene o se qualcuno gli stia facendo del male, facendo sprofondare chi aspetta in un’angoscia senza fine. 

Ma la storia di Ana è anche una storia di lotta, di determinazione, di dignità e di coraggio. E colpisce ritrovare tutte queste doti in una donna che ha sofferto, e continua a soffrire, così tanto. Ana ha avuto la forza di reagire, di affrontare paure e dolore, di ricominciare, di lottare. Ana l’ho conosciuta qualche anno fa, accompagnava la toccante mostra "Huellas de la Memoria" [2] sui desaparecidos latinoamericani dello scultore messicano Alfredo López Casanova che in quel periodo stava attraversando per l’Europa per raccontare le tante storie nascoste nelle suole delle scarpe dei desaparecidos. Storie, vite di uomini e donne, non numeri, non fredde statistiche. 

Di Ana ho un ricordo indelebile e una stima che definire infinita è riduttivo. In quei giorni di maggio l'ho accompagnata in alcune scuole superiori del veneziano perché potesse far conoscere la sua storia. Ogni incontro è stato un onore essere al suo fianco, ma soprattutto, ogni incontro è stato un'emozione grandissima e finiva inesorabilmente con gli studenti in lacrime che l’abbracciavano. Sembrava che Ana si nutrisse di quel calore, di quelle lacrime, di quella solidarietà. Certo non le hanno restituito Oscar ma, ne sono sicuro, le hanno dato un po' di forza per continuare a lottare.

La solidarietà infatti è un’arma importante ma non può bastare a sconfiggere il nemico che controlla le nostre vite, il capitalismo. La storia di Ana non è una tragedia senza colpevoli, ma il frutto di un sistema di morte. È per questo che ci colpisce come un pugno sullo stomaco, che rende insopportabile sostenere il suo sguardo colmo di dignità e determinazione senza provare vergogna per ciò che permettiamo succeda nel mondo in silenzio. Perché possiamo sentirci vicino a lei, possiamo anche abbracciarla fortissimo, ma non le saremo mai vicini realmente se ogni mattina non ci alzeremo dal letto per lottare contro chi divide tra noi e loro, contro chi dice "prima questo o quello", contro chi mette muri, chiude i porti o impone linee immaginarie e invalicabili che chiama frontiere, contro chi crea disuguaglianza, povertà e violenza. 

Lottare contro tutto questo è lottare per la Giustizia. Per Oscar e per Ana. 

Ad Ana, che ogni giorni ci insegna cosa vuol dire lottare con amore. 


[1] Tratto da Somos el Medio di Alfredo López Casanova

[2] Huellas de la Memoria a Venezia su Globalproject
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